Thursday, April 26, 2018

Santo Padre, c’è ancora tempo per fare il possibile e l’impossibile per salvare Alfie


Ripercorriamo brevemente gli eventi. Il 20 febbraio 2018, il giudice dell’alta corte inglese, Anthony Hayden, noto sostenitore delle adozioni di bambini da parte delle coppie omosessuali, autorizza i medici dell’Alder Hay Children Hospital di Liverpool ad uccidere Alfie Evans, un bimbo di due anni, distaccandolo dai macchinari che gli consentono di respirare e di nutrirsi. È una condanna a morte per soffocamento e per mancanza di acqua e di cibo. Alfie è colpevole di essere un peso per la società. Fornirgli aria e cibo assistendolo in una struttura sanitaria costa. Perché sprecare tante risorse? Alfie è ormai in stato di semi incoscienza da tempo (forse per via degli stessi farmaci somministratigli dai medici) ed è affetto da una malattia rara sconosciuta o ancora non diagnosticata. Non ha più una vita degna di essere vissuta. Il suo miglior interesse, così argomentano i medici e il giudice, è di essere ucciso in quel modo. I genitori? Hayden ritiene che non siano in condizioni di decidere quale sia il miglior bene del figlio. Loro vorrebbero salvarlo, tenerlo in vita. Per tale motivo, viene nominato per Alfie un custode legale. L’esproprio del figlio da parte delle autorità inglesi è completo. I genitori non possono portare il figlio in altre strutture ospedaliere o farlo assistere da altri medici. Possono solo aspettare che la sentenza di morte venga eseguita dai medici dell’ospedale.

Moltissime persone in tutto il mondo sono commosse e affrante per la sofferenza dei genitori e per il destino del piccolo decretato dal giudice Heyden ma la giustizia deve seguire criteri oggettivi. Proprio quando i sentimenti e le emozioni offuscano la mente, è compito dei giudici far sì che si agisca secondo l’oggettività e il miglior interesse delle parti. Questo in sé è giusto. I giudici che, nonostante le pressioni emotive, agiscono con fermezza secondo giustizia vanno lodati.

La cosa più curiosa è che, vista l’appartenenza della famiglia di Alfie alla Chiesa Cattolica, il giudice Hayden, stimolato in tal senso dagli stessi medici dell’ospedale, decide di argomentare la giustizia della sua decisione basandola sulla dottrina cattolica. Così ce lo spiega, in un’intervista rilasciata a Tempi.it, il nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita nominato dal Papa, Monsignor Vincenzo Paglia:

«[è] bene leggere il testo del giudice per intero per comprendere la complessità e la delicatezza della situazione clinica di Alfie. Come pure si deve tener presente – e con serietà – la drammaticità di quello che i genitori stanno vivendo. Alla fine di un’ampia e articolata analisi medica, il giudice, considerando che i genitori sono cattolici, decide di prendere in esame anche la posizione della Chiesa. E si riferisce allora a tre testi, riscontrando tra di essi una completa coerenza: il Catechismo, il documento sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980, il discorso del Papa del 2017».

Paglia non ha dubbi e, alla domanda precisa dell’intervistatore che lo sollecita sul fatto che il giudice Hayden avrebbe quindi deciso la “soppressione” di Alfie in virtù di un ragionamento cattolico che anche il Papa sottoscriverebbe, risponde:

«[…] parlare di “soppressione” non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento terapeutico. Come dice il Catechismo della Chiesa cattolica si tratta cioè di una opzione con cui non si intende «procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (CCC 2278)».


Le parole di Paglia sollevano un polverone. Come fa il nuovo Presidente della Pontificia Accademia per la Vita ad assecondare il giudice inglese sull’interpretazione del caso di Alfie in termini di accanimento terapeutico? Leggiamo l’intero punto del Catechismo in questione:

«2278 L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».


La scelta di parole del Catechismo è cruciale. L’accanimento terapeutico si ha quando si utilizzano procedure mediche «onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate» non idonee ad impedire la morte. In tali casi, la decisione di “staccare la spina” non intende «procurare la morte» ma equivale al riconoscimento da parte di noi creature «di non poterla impedire». Non c’è bisogno di essere membri della Pontificia Accademia per la Vita per capire quanto sia lontano questo punto del Catechismo dall’idea di togliere ad un bambino l’aria e il cibo necessari a vivere. Su questo non dovrebbe esserci bisogno di soffermarsi perché la bioetica cattolica lo ha sempre accettato accuratamente e unanimemente.

Qualche dubbio in passato c’è stato, perfino nelle più alte sfere. L’11 luglio del 2005, S.E. Mons. William S. Skylstad, l’allora Presidente della Conferenza Episcopale statunitense, inviò due quesiti a proposito di nutrimento e idratazione alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Leggiamo questi quesiti e le relative risposte:

Primo quesito: È moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in “stato vegetativo”, a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico?
Risposta: Sì. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione.
Secondo quesito: Se il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente in “stato vegetativo permanente”, possono essere interrotti quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?
Risposta: No. Un paziente in “stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Risposte, decise nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 1° agosto 2007.
William Cardinale Levada
Prefetto

Nelle note di commento a questi quesiti, la Congregazione per la Dottrina della Fede specifica ulteriormente, con parole di Giovanni Paolo II, che:

«L’ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.) […] L’obbligo di non far mancare “le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, parte IV) comprende, infatti, anche l’impiego dell’alimentazione e idratazione (cf. Pontificio Consiglio Cor UnumQuestioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, n. 2.4.4; Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, n. 120). La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione».

Questi chiarimenti non affrontano direttamente il caso della ventilazione, ma la ratio delle indicazioni generali fornite da Giovanni Paolo II sul «diritto ad una assistenza sanitaria di base» è abbastanza ampia da includerla. La ventilazione non serve a tenere in vita a tutti i costi un paziente che sta morendo, ma soltanto a consentirgli di ricevere l’ossigeno. Il paziente soggetto a ventilazione (ma anche a nutrimento e idratazione) può morire per cause naturali come chiunque altro, allo stesso modo di un cardiopatico col bypass o che segua una terapia funzionale a diluire il sangue. La ventilazione è quindi normalmente uno strumento ordinario e proporzionato dell’assistenza sanitaria di base dovuta ad ogni paziente. D’altronde, la ventilazione di Alfie non è delle più invasive. Adesso si riduce ad un tubicino nel naso, e come dimostrano le ultime ore, dopo il primo tentato omicidio, è così poco «straordinaria» che il piccolo ha continuato a respirare anche senza. Per chiarirci: tutti gli strumenti di assistenza, inclusi quello ordinari di base, possono diventare accanimento terapeutico qualora non siano più in condizioni di raggiungere il loro fine, come il nutrimento nel caso della somministrazione di cibo e l’ossigenazione nel caso della ventilazione. Nessuno di questi strumenti implica un assoluto morale. Non bisogna quindi interpretarli in maniera formalistica. Se però sono in condizioni oggettive di farlo non si possono interrompere. Togliere l’ossigeno, il cibo o l’acqua a un paziente non significa consentirgli di morire per cause naturali.

Inoltre, con riguardo ai quesiti riportati, Alfie non è in stato vegetativo permanente, non è neppure in coma, e non è in quello stato di parziale incoscienza poco diagnosticato da più di un anno. Non è neppure detto che sia in stato vegetativo. I medici stessi che lo hanno rapito, impedendo ai genitori di portarlo in altri ospedali e a qualsiasi altro medico di visitarlo, hanno parlato di uno stato semi-vegetativo. Come dicevo, è addirittura possibile che il suo stato attuale sia l’effetto dell’operato di chi pensava che sarebbe morto poco dopo il distacco del respiratore. La sopravvivenza di Alfie al tentato omicidio di ieri è un campanello di allarme sulla fondatezza di quella «ampia e articolata analisi medica», per dirla alla Paglia, che è stata posta dal giudice alla base della sua sentenza di morte. Un altro campanello di allarme per la Chiesa Cattolica, in questa vicenda, sarebbe dovuto subito venire dall’attivismo del giudice in favore delle adozioni omosessuali, in cui al “bene dei figli” è negata una famiglia naturale con un padre e una madre. Chi ha dimestichezza con questo tema, si deve subito interrogare sull’idoneità di un attivista del genere a giudicare del miglior bene di Alfie, togliendolo alla potestà dei genitori e condannandolo a morte. L’etica ha una sua continuità. Non si può capire perfettamente il miglior interesse del bambino in un caso e fraintenderlo completamente in un altro.

Il fatto è che, di fronte alle pretese di questo giudice di sentenziare la morte di Alfie citando il Papa e la dottrina cattolica, le autorità ecclesiastiche, a cominciare dal Papa avrebbero dovuto immediatamente entrare in allerta. Sarebbe bastato poco poi per rendersi conto che il caso di Alfie non ha nulla a che vedere con l’accanimento terapeutico e spiegare ai fedeli cattolici di tutto il mondo che la Chiesa non può tollerare l’eutanasia né per azione né per omissione. Visto anche l’attuale trend dell’Inghilterra e di altri paesi di legittimare di fatto l’eutanasia e l’eugenetica col pretesto dell’accanimento terapeutico, la responsabilità del munus docendi della Chiesa avrebbe dovuto entrare subito al livello di massima allerta.

Lasciamo stare la responsabilità del munus docendi, però, e concentriamoci sul caso di Alfie. Il giudice Hayden è incompetente sulla dottrina cattolica ed è palesemente inadatto a giudicare del miglior interesse di Alfie ma è pur sempre un giudice. Se deve cambiare idea ha bisogno di argomenti oggettivi. Non gli si può dire “Sì, guarda, hai ragione ma considera, per piacere, il dolore dei genitori e la solidarietà di tante persone nel mondo”. Un giudice di coscienza che ritiene di aver deciso bene non può e non deve cedere a richieste di questo tipo. Al giudice Hayden bisognava e bisogna dire chiaramente e con fermezza che ha sbagliato a interpretare sia la dottrina cattolica sia il concetto di accanimento terapeutico. Chiarezza e fermezza su questo punto potrebbero anche cambiare l’atteggiamento di altre autorità britanniche e di quelle fette dell’opinione pubblica che non capiscono perché si debba fare tanto clamore per questo bambino, il cui miglior bene “ufficialmente” consisterebbe nel morire subito per soffocamento e disidratazione. Forse una presa di posizione veritativa forte da parte della Chiesa potrebbe perfino fare uscire la regina Elisabetta dalla totale indifferenza che ha mostrato fino ad ora per la questione.

Chiarire l’oggettiva immoralità di togliere ad Alfie l’aria, l’acqua e il cibo avviando “procedure” intese a faro morire dovrebbe essere la responsabilità primaria e solenne della Chiesa in un caso del genere, non solo rispetto al munus docendi in generale, ma anche rispetto alla possibilità concreta di salvare la vita di questo bambino innocente. La carità cristiana dovrebbe lasciare le novantanove pecore sul monte in questo caso e occuparsi di questa piccolissima pecorella indifesa. Dovrebbe tuonare a tutto il mondo che quel bimbo non si tocca e quale terribile omicidio sarebbe farlo morire per asfissia o di fame e di sete.

La Chiesa ufficiale, invece, quella che ha il potere di dialogare con i potenti del mondo, ha finora scelto l’altra strada delineata da Paglia in quell’intervista. Ha deciso di rinunciare a giudicare il caso di Alfie alla luce delle verità oggettive della morale cattolica, e ha deciso perfino di rinunciare a ricordarle al giudice Hayden e al mondo. L’unica preoccupazione del Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, forse indotta dal dibattito recente su Amoris Laetitia, è di evidenziare che ogni caso concreto richiede “discernimento”, che le questioni morali non si possono semplicemente affrontare incollandovi sopra delle norme astratte. Ora, che l’applicazione e la comprensione delle norme morali richieda prudenza è una verità vecchia e importante ma che non può giustificare il deresponsabilizzarsi. Paglia parla come se dovessimo avere un complesso di inferiorità verso la “complessità” della decisione del giudice e delle perizie dei medici inglesi, come se dovessimo lasciare fare a loro che ne sanno di più. Se fossi maligno penserei che l’obiettivo, forse in consapevole, è anche il consenso di questo mondo, il cercare di farsi belli.

Credo che solo questa impostazione di Paglia possa gettare luce sull’uscita stupefacente dei vescovi inglesi, che si sono preoccupati, non di salvare la vita di Alfie, ma di difendere la professionalità, l’onestà e l’operato dei sui carnefici. Il Vaticano si è mosso con enorme ritardo rispetto al bene di Alfie, sulla scia dell’onda emotiva del dolore dei genitori e dell’esplosione di solidarietà in tutto il mondo. Il Papa ha fatto leva su questo, che però è precisamente ciò di cui le autorità inglesi non hanno bisogno. Anzi, fare leva sui sentimenti e i desideri, cercare di commuovere pensando allo strazio dei genitori, gioca come una conferma della sentenza del giudice e delle decisioni ad essa conseguenti. È come dire al giudice che sul suo ragionamento non c’è nulla da obiettare e chiedergli di agire sulla base delle emozioni.

Rileggiamo i messaggi principali del Papa:

«Affido alla vostra preghiera le persone, come Vincent Lambert, in Francia, il piccolo Alfie Evans, in Inghilterra, e altre in diversi Paesi, che vivono, a volte da lungo tempo, in stato di grave infermità, assistite medicalmente per i bisogni primari. Sono situazioni delicate, molto dolorose e complesse. Preghiamo perché ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita» (Regina Coeli, 15 aprile).

«Commosso per le preghiere e la vasta solidarietà in favore del piccolo Alfie Evans, rinnovo il mio appello perché venga ascoltata la sofferenza dei suoi genitori e venga esaudito il loro desiderio di tentare nuove possibilità di trattamento» (Tweet del 23 aprile).

A parte la genericità di questi messaggi, la cosa che colpisce di più nell’appello del 23 aprile, quello principale da cui ci si aspettava una svolta, è che non c’è alcuna traccia della grave ingiustizia perpetrata ai danni di Alfie. Non ci sono riferimenti ai princìpi oggettivi della morale. Non c’è alcun giudizio veritativo sul fatto che sia immorale provocare la morte di quel bambino innocente. L’appello è fatto in favore della sofferenza dei genitori e del loro desiderio: un appello inutile e controproducente, lo ripeto, per un giudice che (per ipotesi) è tenuto proteggere il miglior interesse di Alfie anche contro i sentimenti dei genitori e contro le pressioni, potenzialmente ingiuste e irrazionali, della gente.

Il Papa ha chiesto di fare il possibile e l’impossibile per salvare Alfie, e tutti abbiamo assistito ai lodevoli sforzi di Mariella Enoc, Presidente del Bambin Gesù di Roma. La cosa “possibile” e auspicabile che può fare il Papa però, dopo aver comunicato empatia ed emozioni, è comunicare la verità. Può dire con chiarezza e fermezza a tutto il mondo che l’accanimento terapeutico non c’entra nulla con il caso di Alfie, che la dottrina cattolica non può essere utilizzata in alcun modo per legittimare l’operato del giudice Hayden, e che provocare la morte di Alfie è una ingiustizia infinita e un peccato gravissimo contro Dio e contro l’umanità. Finora il Papa ha chiesto di salvare Alfie in omaggio al dolore e ai desideri dei genitori. È ora di chiedere di salvare Alfie perché Alfie va salvato. Esiste la possibilità che questa chiarezza sull’oggettività morale, questo appello alla giustizia piuttosto che ai sentimenti, possa nei prossimi giorni salvare questo bambino o contribuire a salvarlo. Questo appello aiuterebbe anche la Chiesa intera, che è testimone di verità, che ha un primato nell’insegnamento della morale, e che non può permettere di cedere il proprio munus ad un giudice inglese che ha già dimostrato in molti modi la sua incompetenza e durezza di cuore.

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