Ripercorriamo brevemente gli eventi. Il 20 febbraio 2018, il
giudice dell’alta corte inglese, Anthony Hayden, noto sostenitore delle
adozioni di bambini da parte delle coppie omosessuali, autorizza i medici dell’Alder Hay Children Hospital di Liverpool
ad uccidere Alfie Evans, un bimbo di due anni, distaccandolo dai macchinari che
gli consentono di respirare e di nutrirsi. È una condanna a morte per
soffocamento e per mancanza di acqua e di cibo. Alfie è colpevole di essere un
peso per la società. Fornirgli aria e cibo assistendolo in una struttura
sanitaria costa. Perché sprecare tante risorse? Alfie è ormai in stato di semi
incoscienza da tempo (forse per via degli stessi farmaci somministratigli dai
medici) ed è affetto da una malattia rara sconosciuta o ancora non
diagnosticata. Non ha più una vita degna di essere vissuta. Il suo miglior
interesse, così argomentano i medici e il giudice, è di essere ucciso in quel
modo. I genitori? Hayden ritiene che non siano in condizioni di decidere quale
sia il miglior bene del figlio. Loro vorrebbero salvarlo, tenerlo in vita. Per
tale motivo, viene nominato per Alfie un custode legale. L’esproprio del figlio
da parte delle autorità inglesi è completo. I genitori non possono portare il
figlio in altre strutture ospedaliere o farlo assistere da altri medici.
Possono solo aspettare che la sentenza di morte venga eseguita dai medici
dell’ospedale.
Moltissime persone in tutto il mondo sono commosse e
affrante per la sofferenza dei genitori e per il destino del piccolo decretato
dal giudice Heyden ma la giustizia deve seguire criteri oggettivi. Proprio quando
i sentimenti e le emozioni offuscano la mente, è compito dei giudici far sì che
si agisca secondo l’oggettività e il miglior interesse delle parti. Questo in
sé è giusto. I giudici che, nonostante le pressioni emotive, agiscono con
fermezza secondo giustizia vanno lodati.
La cosa più curiosa è che, vista l’appartenenza della
famiglia di Alfie alla Chiesa Cattolica, il giudice Hayden, stimolato in tal
senso dagli stessi medici dell’ospedale, decide di argomentare la giustizia
della sua decisione basandola sulla dottrina cattolica. Così ce lo spiega, in
un’intervista rilasciata a Tempi.it,
il nuovo presidente della Pontificia
Accademia per la Vita nominato dal Papa, Monsignor Vincenzo Paglia:
«[è]
bene leggere il testo del giudice per intero per comprendere la complessità e
la delicatezza della situazione clinica di Alfie. Come pure si deve tener
presente – e con serietà – la drammaticità di quello che i genitori stanno
vivendo. Alla fine di un’ampia e articolata analisi medica, il giudice,
considerando che i genitori sono cattolici, decide di prendere in esame anche
la posizione della Chiesa. E si riferisce allora a tre testi, riscontrando tra
di essi una completa coerenza: il Catechismo, il documento sull’eutanasia della
Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980, il discorso del Papa del
2017».
Paglia non ha dubbi e, alla domanda precisa
dell’intervistatore che lo sollecita sul fatto che il giudice Hayden avrebbe quindi
deciso la “soppressione” di Alfie in virtù di un ragionamento cattolico che
anche il Papa sottoscriverebbe, risponde:
«[…] parlare
di “soppressione” non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le
ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento
valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa
non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento
terapeutico. Come dice il Catechismo della Chiesa cattolica si tratta cioè di
una opzione con cui non si intende «procurare la morte: si accetta di non
poterla impedire» (CCC 2278)».
La scelta di parole del Catechismo è cruciale. L’accanimento
terapeutico si ha quando si utilizzano procedure mediche «onerose, pericolose, straordinarie o
sproporzionate» non idonee ad impedire la morte. In tali casi, la decisione
di “staccare la spina” non intende «procurare
la morte» ma equivale al riconoscimento da parte di noi creature «di non poterla impedire». Non c’è
bisogno di essere membri della Pontificia
Accademia per la Vita per capire quanto sia lontano questo punto del
Catechismo dall’idea di togliere ad un bambino l’aria e il cibo necessari a
vivere. Su questo non dovrebbe esserci bisogno di soffermarsi perché la
bioetica cattolica lo ha sempre accettato accuratamente e unanimemente.
Qualche dubbio in passato c’è stato, perfino nelle più alte
sfere. L’11 luglio del 2005, S.E. Mons. William S. Skylstad, l’allora Presidente
della Conferenza Episcopale statunitense, inviò due quesiti a proposito di
nutrimento e idratazione alla Congregazione
per la Dottrina della Fede. Leggiamo questi quesiti e le relative risposte:
Primo quesito: È
moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali
oppure artificiali) al paziente in “stato vegetativo”, a meno che questi
alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli
possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico?
Risposta: Sì. La
somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di
principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa
è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di
raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e
il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte
dovute all’inanizione e alla disidratazione.
Secondo quesito: Se
il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente
in “stato vegetativo permanente”, possono essere interrotti quando medici
competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la
coscienza?
Risposta: No. Un
paziente in “stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità
umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e
proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di
acqua e cibo, anche per vie artificiali.
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI,
nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha
approvato le presenti Risposte, decise nella Sessione Ordinaria di questa
Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della
Congregazione per la Dottrina della Fede, il 1° agosto 2007.
William Cardinale Levada
Prefetto
Prefetto
Nelle note
di commento a questi quesiti, la Congregazione
per la Dottrina della Fede specifica ulteriormente, con parole di Giovanni
Paolo II, che:
«L’ammalato in stato vegetativo, in
attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza
sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.) […] L’obbligo
di non far mancare “le cure normali dovute all’ammalato in simili casi”
(Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione
sull’eutanasia, parte IV) comprende, infatti, anche
l’impiego dell’alimentazione e idratazione (cf. Pontificio Consiglio Cor
Unum, Questioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti,
n. 2.4.4; Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari, Carta
degli Operatori Sanitari, n. 120). La valutazione delle probabilità,
fondata sulle scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si
prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l’abbandono o
l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese
alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico
risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce
per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una
vera e propria eutanasia per omissione».
Questi chiarimenti non affrontano direttamente il caso della
ventilazione, ma la ratio delle indicazioni generali fornite da Giovanni Paolo
II sul «diritto
ad una assistenza sanitaria di base» è
abbastanza ampia da includerla. La ventilazione non serve a tenere in
vita a tutti i costi un paziente che sta morendo, ma soltanto a consentirgli di
ricevere l’ossigeno. Il paziente soggetto a ventilazione (ma anche a nutrimento
e idratazione) può morire per cause naturali come chiunque altro, allo stesso
modo di un cardiopatico col bypass o che segua una terapia funzionale a diluire
il sangue. La ventilazione è quindi normalmente uno strumento ordinario e
proporzionato dell’assistenza sanitaria di base dovuta ad ogni paziente. D’altronde,
la ventilazione di Alfie non è delle più invasive. Adesso si riduce ad un
tubicino nel naso, e come dimostrano le ultime ore, dopo il primo tentato
omicidio, è così poco «straordinaria» che il piccolo ha continuato a respirare anche
senza. Per chiarirci: tutti gli strumenti di assistenza, inclusi quello ordinari
di base, possono diventare accanimento terapeutico qualora non siano più in
condizioni di raggiungere il loro fine, come il nutrimento nel caso della somministrazione
di cibo e l’ossigenazione nel caso della ventilazione. Nessuno di questi
strumenti implica un assoluto morale. Non bisogna quindi interpretarli in
maniera formalistica. Se però sono in condizioni oggettive di farlo non si
possono interrompere. Togliere l’ossigeno, il cibo o l’acqua a un paziente non
significa consentirgli di morire per cause naturali.
Inoltre, con riguardo ai quesiti riportati, Alfie non è in
stato vegetativo permanente, non è neppure in coma, e non è in quello stato di
parziale incoscienza poco diagnosticato da più di un anno. Non è neppure detto
che sia in stato vegetativo. I medici stessi che lo hanno rapito, impedendo ai
genitori di portarlo in altri ospedali e a qualsiasi altro medico di visitarlo,
hanno parlato di uno stato semi-vegetativo. Come dicevo, è addirittura possibile
che il suo stato attuale sia l’effetto dell’operato di chi pensava che sarebbe
morto poco dopo il distacco del respiratore. La sopravvivenza di Alfie al tentato
omicidio di ieri è un campanello di allarme sulla fondatezza di quella «ampia e articolata analisi medica», per
dirla alla Paglia, che è stata posta dal giudice alla base della sua sentenza
di morte. Un altro campanello di allarme per la Chiesa Cattolica, in questa
vicenda, sarebbe dovuto subito venire dall’attivismo del giudice in favore
delle adozioni omosessuali, in cui al “bene dei figli” è negata una famiglia
naturale con un padre e una madre. Chi ha dimestichezza con questo tema, si
deve subito interrogare sull’idoneità di un attivista del genere a giudicare
del miglior bene di Alfie, togliendolo alla potestà dei genitori e
condannandolo a morte. L’etica ha una sua continuità. Non si può capire
perfettamente il miglior interesse del bambino in un caso e fraintenderlo
completamente in un altro.
Il fatto è che, di fronte alle pretese di questo giudice di sentenziare la morte di Alfie citando il Papa e la dottrina cattolica, le autorità ecclesiastiche, a cominciare dal Papa avrebbero dovuto immediatamente entrare in allerta. Sarebbe bastato poco poi per rendersi conto che il caso di Alfie non ha nulla a che vedere con l’accanimento terapeutico e spiegare ai fedeli cattolici di tutto il mondo che la Chiesa non può tollerare l’eutanasia né per azione né per omissione. Visto anche l’attuale trend dell’Inghilterra e di altri paesi di legittimare di fatto l’eutanasia e l’eugenetica col pretesto dell’accanimento terapeutico, la responsabilità del munus docendi della Chiesa avrebbe dovuto entrare subito al livello di massima allerta.
Lasciamo stare la responsabilità del munus docendi, però, e concentriamoci sul caso di Alfie. Il giudice
Hayden è incompetente sulla dottrina cattolica ed è palesemente inadatto a
giudicare del miglior interesse di Alfie ma è pur sempre un giudice. Se deve
cambiare idea ha bisogno di argomenti oggettivi. Non gli si può dire “Sì,
guarda, hai ragione ma considera, per piacere, il dolore dei genitori e la
solidarietà di tante persone nel mondo”. Un giudice di coscienza che ritiene di
aver deciso bene non può e non deve cedere a richieste di questo tipo. Al
giudice Hayden bisognava e bisogna dire chiaramente e con fermezza che ha
sbagliato a interpretare sia la dottrina cattolica sia il concetto di
accanimento terapeutico. Chiarezza e fermezza su questo punto potrebbero anche
cambiare l’atteggiamento di altre autorità britanniche e di quelle fette
dell’opinione pubblica che non capiscono perché si debba fare tanto clamore per
questo bambino, il cui miglior bene “ufficialmente” consisterebbe nel morire
subito per soffocamento e disidratazione. Forse una presa di posizione
veritativa forte da parte della Chiesa potrebbe perfino fare uscire la regina
Elisabetta dalla totale indifferenza che ha mostrato fino ad ora per la
questione.
Chiarire l’oggettiva immoralità di togliere ad Alfie l’aria,
l’acqua e il cibo avviando “procedure” intese a faro morire dovrebbe essere la
responsabilità primaria e solenne della Chiesa in un caso del genere, non solo
rispetto al munus docendi in
generale, ma anche rispetto alla possibilità concreta di salvare la vita di
questo bambino innocente. La carità cristiana dovrebbe lasciare le novantanove
pecore sul monte in questo caso e occuparsi di questa piccolissima pecorella indifesa.
Dovrebbe tuonare a tutto il mondo che quel bimbo non si tocca e quale terribile
omicidio sarebbe farlo morire per asfissia o di fame e di sete.
La Chiesa ufficiale, invece, quella che ha il potere di
dialogare con i potenti del mondo, ha finora scelto l’altra strada delineata da
Paglia in quell’intervista. Ha deciso di rinunciare a giudicare il caso di
Alfie alla luce delle verità oggettive della morale cattolica, e ha deciso perfino
di rinunciare a ricordarle al giudice Hayden e al mondo. L’unica preoccupazione
del Presidente della Pontificia Accademia
per la Vita, forse indotta dal dibattito recente su Amoris Laetitia, è di evidenziare che ogni caso concreto richiede
“discernimento”, che le questioni morali non si possono semplicemente affrontare
incollandovi sopra delle norme astratte. Ora, che l’applicazione e la
comprensione delle norme morali richieda prudenza è una verità vecchia e
importante ma che non può giustificare il deresponsabilizzarsi. Paglia parla come
se dovessimo avere un complesso di inferiorità verso la “complessità” della
decisione del giudice e delle perizie dei medici inglesi, come se dovessimo
lasciare fare a loro che ne sanno di più. Se fossi maligno penserei che
l’obiettivo, forse in consapevole, è anche il consenso di questo mondo, il
cercare di farsi belli.
Credo che solo questa impostazione di Paglia possa gettare
luce sull’uscita stupefacente dei vescovi inglesi, che si sono preoccupati, non
di salvare la vita di Alfie, ma di difendere la professionalità, l’onestà e
l’operato dei sui carnefici. Il Vaticano si è mosso con enorme ritardo rispetto
al bene di Alfie, sulla scia dell’onda emotiva del dolore dei genitori e dell’esplosione
di solidarietà in tutto il mondo. Il Papa ha fatto leva su questo, che però è
precisamente ciò di cui le autorità inglesi non hanno bisogno. Anzi, fare leva
sui sentimenti e i desideri, cercare di commuovere pensando allo strazio dei genitori,
gioca come una conferma della sentenza del giudice e delle decisioni ad essa
conseguenti. È come dire al giudice che sul suo ragionamento non c’è nulla da
obiettare e chiedergli di agire sulla base delle emozioni.
Rileggiamo i messaggi principali del Papa:
«Affido
alla vostra preghiera le persone, come Vincent Lambert, in Francia, il piccolo
Alfie Evans, in Inghilterra, e altre in diversi Paesi, che vivono, a volte da
lungo tempo, in stato di grave infermità, assistite medicalmente per i bisogni
primari. Sono situazioni delicate, molto dolorose e complesse. Preghiamo perché
ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto
alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli
altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita» (Regina Coeli,
15 aprile).
«Commosso
per le preghiere e la vasta solidarietà in favore del piccolo Alfie Evans,
rinnovo il mio appello perché venga ascoltata la sofferenza dei suoi genitori e
venga esaudito il loro desiderio di tentare nuove possibilità di trattamento»
(Tweet del 23 aprile).
A parte la genericità di questi messaggi, la cosa che
colpisce di più nell’appello del 23 aprile, quello principale da cui ci si
aspettava una svolta, è che non c’è alcuna traccia della grave ingiustizia
perpetrata ai danni di Alfie. Non ci sono riferimenti ai princìpi oggettivi della
morale. Non c’è alcun giudizio veritativo sul fatto che sia immorale provocare
la morte di quel bambino innocente. L’appello è fatto in favore della
sofferenza dei genitori e del loro desiderio: un appello inutile e
controproducente, lo ripeto, per un giudice che (per ipotesi) è tenuto
proteggere il miglior interesse di Alfie anche contro i sentimenti dei genitori
e contro le pressioni, potenzialmente ingiuste e irrazionali, della gente.
Il Papa ha chiesto di fare il possibile e l’impossibile per
salvare Alfie, e tutti abbiamo assistito ai lodevoli sforzi di Mariella Enoc,
Presidente del Bambin Gesù di Roma. La cosa “possibile” e auspicabile che può
fare il Papa però, dopo aver comunicato empatia ed emozioni, è comunicare la
verità. Può dire con chiarezza e fermezza a tutto il mondo che l’accanimento
terapeutico non c’entra nulla con il caso di Alfie, che la dottrina cattolica
non può essere utilizzata in alcun modo per legittimare l’operato del giudice Hayden,
e che provocare la morte di Alfie è una ingiustizia infinita e un peccato
gravissimo contro Dio e contro l’umanità. Finora il Papa ha chiesto di salvare
Alfie in omaggio al dolore e ai desideri dei genitori. È ora di chiedere di salvare
Alfie perché Alfie va salvato. Esiste la possibilità che questa chiarezza
sull’oggettività morale, questo appello alla giustizia piuttosto che ai
sentimenti, possa nei prossimi giorni salvare questo bambino o contribuire a
salvarlo. Questo appello aiuterebbe anche la Chiesa intera, che è testimone di
verità, che ha un primato nell’insegnamento della morale, e che non può
permettere di cedere il proprio munus
ad un giudice inglese che ha già dimostrato in molti modi la sua incompetenza e
durezza di cuore.
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