Sunday, April 29, 2018

Caso Eluana: Non giudicare?

Ripropongo la mia introduzione ad un volume della rivista "Questioni di Biotica" del 2009.


Il caso Englaro continua a fare notizia. Guai se non fosse così! Negli ultimi tempi, tutti siamo stati chiamati a pronunciarci su di esso, chi come semplice cittadino in dialogo con la sua coscienza, chi nella sua qualità di studioso, di giornalista, di docente o di intellettuale in dialogo con i suoi lettori e studenti. Quando, con la redazione, abbiamo discusso dell’editoriale di questo numero della rivista, non ci sono stati dubbi. Scelta tematica facile! Difficile il taglio! Come tanti, in tante lezioni e convegni, anch’io ho approfondito specificamente di volta in volta singoli aspetti del caso: dal conflitto giuridico istituzionale, al tipo di legge che bisognerebbe promulgare, al confine medico tra terapia e accanimento terapeutico, alla questione etico antropologica sull’identità della persona e il rispetto che le è dovuto, ecc. Nessun aspetto così specifico, tuttavia, sembrava adatto a questo editoriale, soprattutto in giorni in cui gli interventi pubblici degli studiosi e degli addetti ai lavori si moltiplicano sempre di più (alcuni anche per disattenzione e fuga di notizie).

In questo caso, bisogna concentrarsi piuttosto su alcuni aspetti di fondo che devono necessariamente colpire di più chiunque di noi si guardi intorno, magari un po’ sconsolato e sfiduciato, cercando di capire che cosa ci stia succedendo. La prima cosa che appare, allora è un certo imborghesimento e tiepidezza del bene morale che circonda l’approccio culturale più diffuso alla questione: una sorta di nichilismo etico che diventa paradigma culturale e valore guida, una disillusione sulla verità che si trasforma in rifiuto di giudicare e in giudizio di assoluzione per chiunque, qualunque cosa faccia. Ci si è detto che nessuno ha il monopolio di che cosa significhino dolore e amore e che, pertanto, bisognerebbe lasciare in pace il padre di Eluana e… “fare silenzio”. Quest’idea, lo confesso, mi lascia profondamente inquieto.

Giovanni Paolo II, al principio dell’enciclica Evangelium Vitae (documento di estrema attualità e forza intellettuale), e di fronte al prospetto di tanti delitti perpetrati oggi contro la vita umana, scrive che «se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell’eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana» (n. 4).

Non è forse questo che sta dietro gli appelli al silenzio e al non giudicare? Una cultura che non si cura più della distinzione tra bene e male, e che per ciò si rifiuta diffusamente di leggere e di interpretare l’amore e il dolore in relazione ai gesti e alle azioni concrete che li veicolano e li rendono presenti? Quando parlo di dolore mi riferisco, naturalmente, al dolore che nasce dall’amore generoso e disinteressato, e che merita pertanto rispetto e attenzione morale. Sì, perché il dolore in sé lo provano tutti: i buoni e i cattivi. L’avaro prova dolore quando non ha le sue ricchezze, lo stupratore quando non può abusare della sua vittima, il criminale quando è chiuso in carcere, l’egoista quando si deve sacrificare per gli altri, il peccatore quando si parla pubblicamente dei sui peccati. Il dolore, come tale, non merita alcun rispetto! Quello che merita rispetto (e venerazione!) è il dolore di chi non si stanca mai di accudire gli altri, di sacrificarsi per loro e di sperare. Come non leggere l’autenticità dell’amore nelle azioni delle suore che si sono prese cura di Eluana per così tanti anni? E come non avere qualche dubbio sul significato del vero amore di fronte a un genitore che, fin da subito (prima ancora che si potesse parlare di stato vegetativo, persistente o quant’altro), ha chiesto che si “staccasse la spina!”, e che per diciassette anni si è semplicemente battuto per questo: non per accudire, assistere, sperare, amare… ma per farla finita?

Certo, in morale esistono il giudizio oggettivo sulle azioni, da una parte, e il giudizio sulla responsabilità soggettiva, dall’altra. È perfettamente possibile che qualcuno compia un atto cattivo (perfino uccidere un’altra persona) pensando di fare una cosa buona. In questi casi, finanche il diritto offre possibilità di impunità o di sconti sulla pena. Questo però non inficia e non può bloccare il giudizio etico sull’oggettività e il significato oggettivo degli atti. Le due cose non si possono confondere. E nessuno può pretendere che non si giudichino per quello che sono. Io non ho elementi, naturalmente, per giudicare la coscienza e la responsabilità soggettiva di Beppino Englaro. Ma l’idea che non si possano giudicare i suoi gesti oggettivi di questi anni mi inquieta, e mi sembra una violenza ingiustificabile contro la mia coscienza e contro quella di tante altre persone. Nell’analisi degli atti concreti, inoltre, l’impegno politico di Beppino e la sua combutta con diverse associazioni radicali e pro eutanasia giocano certamente in suo sfavore. D’altronde, lo stesso Maurizio Mori (con prefazione di Beppino) scrive che Eluana è il simbolo di una lotta culturale per dimostrare che la vita umana non è sacra. Lotta per un simbolo, dunque, non per il bene di una figlia (la cui vita non è sacra!). Così, almeno, a me appare.

L’inquietudine cresce quando si cercano paragoni di coerenza. Se si ammettesse, per esempio, il principio soggettivistico che nessuno ha diritto di giudicare quello che gli altri reputino (o conclamino come) amore e dolore legittimo, che strumenti resterebbero per contrariare, ad esempio, la pedofilia quando (com’è successo di recente col partito pedofilo) essa si propone come forma legittima di amore per i bambini e come legame positivo di amore e di crescita reciproca tra le generazioni? Per chi ha provato a leggere le argomentazioni di questi pedofili “istruiti”, non è affatto difficile fare il due più due. Essi affermano che sarebbe un dolore illegittimo separare loro dai loro giovinetti. Per chi ha visto quel bellissimo film dal titolo “Quel che resta del giorno”, non è difficile immaginare che un approccio sbagliato alla letteratura sulla razza ebrea ai tempi del nazismo abbia potuto portare alcuni studiosi a pensare che gli ebrei avevano effettivamente una dignità umana inferiore e che potevano essere sacrificati per il miglioramento hegeliano (una più alta sintesi) dell’umano nella storia. E che dire di casi di incesto in cui padre e figlia piccola dichiarassero di amarsi profondamente e di non poter fare a meno sessualmente l’uno dell’altra? Come giudicare questo amore e questo dolore se l’unica cosa che ci rimane è il principio che nessuno ha il monopolio dell’amore e del dolore e che… bisogna fare silenzio?

Come credente, devo dire che l’inquietudine di questi giorni mi richiama alla mente quel passo del Vangelo sugli ultimi tempi, in cui Gesù dice che se essi non verranno abbreviati neppure i giusti si salveranno. Sarà la deformazione professionale, ma io intendo sempre quel passo più o meno nel senso implicato dalla frase di Giovanni Paolo II citata poc’anzi. In fondo, qual è la tentazione più grande per i giusti, quella fisica di stelle che cadono dal cielo, o quella etica e intellettuale di un ambiente culturale così ostile da far perdere credibilità ai princìpi tradizionali della morale? Per me, questa è la vera tentazione e il vero segno degli ultimi tempi. Ma torniamo alla semplice (e sola, troppo spesso abbandonata) ragione.

C’è un altro aspetto che fa da sfondo al dibattito sul caso Eluana e che lascia turbati. È un aspetto che riguarda la violenza: una violenza che si sostituisce alla giustizia e al bene morale. È proprio l’ambiente culturale nichilista, quell’ambiente che porta al non giudicare e al giustificare tutti, che porta anche con sé una schiacciante vittoria teorica e pratica della violenza sulla giustizia. L’idea è che, non essendoci una verità di riferimento per giudicare le situazioni in maniera oggettiva (indipendentemente, cioè, dai desideri dei soggetti coinvolti), resta che le nostre regole pubbliche e i nostri princìpi giuridici (anche i più necessari all’ordine sociale) sono solo espressione di un paradigma culturale prevalente in una certa società in un certo momento storico, e quindi sono solo violenza che impone con la forza pubblica le proprie idee alle minoranze. Oggi sono tutti bravissimi e prontissimi a incentrare i loro discorsi sui paradigmi culturali e le analisi sociali: questo perché, dove non c’è più il pensiero veritativo, la sociologia a la statistica si sostituiscono alla filosofia. La giustizia, però, non può essere separata dalla verità. Non si può dire: «È giusto che tu faccia questo perché noi siamo di più e lo vogliamo», o «perché molti, quasi tutti, fanno così». Questo discorso sofistico ha giustificato nella storia il razzismo e tante altre barbarie culturali. La giustizia ha sì bisogno della maggioranza culturale e politica per essere giuridicamente rispettata, ma ha anche bisogno di una giustificazione basata sulla verità dell’atto che si reputi giusto o ingiusto. Chi non capisce questo è già pronto per l’ennesima violenza storica contro i deboli e le minoranze. La verità e la giustizia “giudicano” per definizione, e agiscono sulla base dei loro giudizi.

Ma qui la (triste) verità è un’altra. È che a nessuno, sul serio, importa più della vita e dell’esistenza di chi non risponde agli standard di benessere, salute e piacere della nostra società mediatica. Se muore una procace valletta televisiva la gente piange e si dispera, se si tratta di un disabile, invece, di un anziano o di un malato grave (magari in coma) c’è una certa indifferenza, addirittura sollievo. È paradossale che la crisi del pensiero veritativo vada così perfettamente a braccetto con questa certezza culturale assoluta su che cos’è che rende la vita degna di esistere. Nella cultura oggi predominante, insieme al pensiero oggettivo, sono spariti il mistero e la sacralità. Ma chi può dire che una vita è più degna di un’altra? Chi può permettersi di esprimere un tale giudizio? La ragione dell’uomo contemporaneo si prende in giro facilmente, giudicando in base a una fede religiosa nuova secondo cui i corpi muscolosi e procaci determinano il grado di dignità dell’esistenza umana. Ma la ragione vera dovrebbe ribellarsi, e inchinarsi di fronte al mistero di molte vite “inutili” e “deboli” la cui esistenza lascia dietro di sé una tale scia di amore e di pienezza che, al confronto, l’intero mercato televisivo potrebbe sprofondare in un baratro senza quasi essere notato.

Ed ecco un altro paradosso: che la sacralità della vita è l’unica difesa autentica della democrazia e di quel principio di autonomia di cui gli illuministi contemporanei fanno un così gran parlare. Certo, essi non lo dicono, ma la loro è l’autonomia di chi è forte e procace, o magari bianco e di sesso maschile: sì, insomma, di chi è così fortunato da essere il soggetto forte secondo i paradigmi culturali del momento. È sconcertante la disinvoltura di chi ha messo a morte Eluana nonostante non ci sia mai stata una manifestazione di volontà chiara, espressa e certa da parte della fanciulla. Qui i giocatori scoprono le loro carte. Non importano i diritti dell’uomo, l’autonomia, la non discriminazione degli esseri umani prevista dall’articolo 3 della Costituzione: Eluana, le altre vite umane che capitano a puntino, non sono sacre, e sono strumentalizzabili e sacrificabili alle lotte politiche che i sedicenti difensori della (propria) autonomia decidano volta per volta di combattere. Altro che ragione contro la fede. Qui non ci sono più né l’una né l’altra: c’è solo il cinismo di una cultura utilitarista e disillusa in cui i più forti la fanno da padroni.

Alcune lettere e interventi pubblici di questi giorni confermano una mancanza di interesse per l’esistenza umana che è ormai per molti un filtro culturale attraverso cui si guarda la società. Dietro l’apparente cura per la libertà, si nasconde in realtà un nichilismo disilluso, una indifferenza per la vita e per l’uomo, la cui esistenza e il cui destino non hanno ormai un valore assoluto, men che meno soprannaturale. Che la morte assurda di Eluana ci aiuti! Che la sua vita “inutile” lasci traccia nei nostri cuori e li illumini sul mistero della dignità e sacralità dell’esistenza umana!


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Questo primo numero cartaceo della nostra rivista si apre con un intervento di Robert Spaemann su Habermas e la bioetica che Giovanni Magrì ha specificamente tradotto per noi dal tedesco. Seguono due articoli che Carmelo Vigna ed Eugenio Lecaldano hanno preparato in occasione di uno dei convegni palermitani promossi dalla redazione di Questioni di Bioetica e che, come sanno bene i nostri lettori, si ispirano ai princìpi di un sano pluralismo in cui autori di primo piano del dibattito pubblico esprimo in libertà le proprie idee, anche quando tra loro contrapposte, o contrarie alla linea editoriale della rivista. I testi di Vigna e Lecaldano, in particolare, riprendono da angolature diverse il tema dei manifesti di bioetica che diversi intellettuali italiani hanno firmato e proposto all’attenzione pubblica nel 2007. Vigna, firmatario del manifesto “Una ragione pubblica per la bioetica” è in polemica soprattutto con Francesco D’Agostino, firmatario del “Manifesto per una bioetica critica”; mentre Lecaldano difende il “Nuovo manifesto di bioetica laica”, firmato anzitutto da Maurizio Mori. Naturalmente, sono diversi gli interventi in questo numero che toccano il caso di Eluana: soprattutto, gli articoli di Marianna Gensabella Furnari, “Lasciar morire? Gli interrogativi etici aperti dalla sospensione di idratazione e alimentazione in pazienti da anni in stati vegetativi”, e di Luciano Sesta, “Quando la coscienza dorme. Un contributo al dibattito sul caso Englaro”; ma anche le note di Salvino Leone, Giorgio Palumbo e Giuseppe Savagnone, il quale si concentra anche sul dramma della vita dei clandestini. La nota di Francesco Ferrara riguarda, invece, il problema etico delle cellule staminali embrionali. Seguono, come sempre, la Rassegna Stampa, le Recensioni e le Novità Bibliografiche. Questa versione cartacea è una grande nuova avventura in cui speriamo vivamente che i lettori ci accompagnino e ci aiutino con il loro gradimento e sostegno.

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