Il caso Englaro continua a fare notizia. Guai se non fosse
così! Negli ultimi tempi, tutti siamo stati chiamati a pronunciarci su di esso,
chi come semplice cittadino in dialogo con la sua coscienza, chi nella sua
qualità di studioso, di giornalista, di docente o di intellettuale in dialogo
con i suoi lettori e studenti. Quando, con la redazione, abbiamo discusso
dell’editoriale di questo numero della rivista, non ci sono stati dubbi. Scelta
tematica facile! Difficile il taglio! Come tanti, in tante lezioni e convegni,
anch’io ho approfondito specificamente di volta in volta singoli aspetti del
caso: dal conflitto giuridico istituzionale, al tipo di legge che bisognerebbe
promulgare, al confine medico tra terapia e accanimento terapeutico, alla
questione etico antropologica sull’identità della persona e il rispetto che le
è dovuto, ecc. Nessun aspetto così specifico, tuttavia, sembrava adatto a
questo editoriale, soprattutto in giorni in cui gli interventi pubblici degli
studiosi e degli addetti ai lavori si moltiplicano sempre di più (alcuni anche
per disattenzione e fuga di notizie).
In questo caso, bisogna concentrarsi piuttosto su alcuni
aspetti di fondo che devono necessariamente colpire di più chiunque di noi si
guardi intorno, magari un po’ sconsolato e sfiduciato, cercando di capire che
cosa ci stia succedendo. La prima cosa che appare, allora è un certo
imborghesimento e tiepidezza del bene morale che circonda l’approccio culturale
più diffuso alla questione: una sorta di nichilismo etico che diventa paradigma
culturale e valore guida, una disillusione sulla verità che si trasforma in
rifiuto di giudicare e in giudizio di assoluzione per chiunque, qualunque cosa
faccia. Ci si è detto che nessuno ha il monopolio di che cosa significhino
dolore e amore e che, pertanto, bisognerebbe lasciare in pace il padre di
Eluana e… “fare silenzio”. Quest’idea, lo confesso, mi lascia profondamente
inquieto.
Giovanni Paolo II, al principio dell’enciclica Evangelium
Vitae (documento di estrema attualità e forza intellettuale), e di fronte al
prospetto di tanti delitti perpetrati oggi contro la vita umana, scrive che «se
è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell’eliminazione di tante vite
umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il
fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti,
fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che
tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana» (n. 4).
Non è forse questo che sta dietro gli appelli al silenzio e
al non giudicare? Una cultura che non si cura più della distinzione tra bene e
male, e che per ciò si rifiuta diffusamente di leggere e di interpretare
l’amore e il dolore in relazione ai gesti e alle azioni concrete che li
veicolano e li rendono presenti? Quando parlo di dolore mi riferisco,
naturalmente, al dolore che nasce dall’amore generoso e disinteressato, e che
merita pertanto rispetto e attenzione morale. Sì, perché il dolore in sé lo
provano tutti: i buoni e i cattivi. L’avaro prova dolore quando non ha le sue
ricchezze, lo stupratore quando non può abusare della sua vittima, il criminale
quando è chiuso in carcere, l’egoista quando si deve sacrificare per gli altri,
il peccatore quando si parla pubblicamente dei sui peccati. Il dolore, come
tale, non merita alcun rispetto! Quello che merita rispetto (e venerazione!) è
il dolore di chi non si stanca mai di accudire gli altri, di sacrificarsi per
loro e di sperare. Come non leggere l’autenticità dell’amore nelle azioni delle
suore che si sono prese cura di Eluana per così tanti anni? E come non avere
qualche dubbio sul significato del vero amore di fronte a un genitore che, fin
da subito (prima ancora che si potesse parlare di stato vegetativo, persistente
o quant’altro), ha chiesto che si “staccasse la spina!”, e che per diciassette
anni si è semplicemente battuto per questo: non per accudire, assistere,
sperare, amare… ma per farla finita?
Certo, in morale esistono il giudizio oggettivo sulle
azioni, da una parte, e il giudizio sulla responsabilità soggettiva,
dall’altra. È perfettamente possibile che qualcuno compia un atto cattivo
(perfino uccidere un’altra persona) pensando di fare una cosa buona. In questi
casi, finanche il diritto offre possibilità di impunità o di sconti sulla pena.
Questo però non inficia e non può bloccare il giudizio etico sull’oggettività e
il significato oggettivo degli atti. Le due cose non si possono confondere. E
nessuno può pretendere che non si giudichino per quello che sono. Io non ho
elementi, naturalmente, per giudicare la coscienza e la responsabilità
soggettiva di Beppino Englaro. Ma l’idea che non si possano giudicare i suoi
gesti oggettivi di questi anni mi inquieta, e mi sembra una violenza
ingiustificabile contro la mia coscienza e contro quella di tante altre
persone. Nell’analisi degli atti concreti, inoltre, l’impegno politico di
Beppino e la sua combutta con diverse associazioni radicali e pro eutanasia
giocano certamente in suo sfavore. D’altronde, lo stesso Maurizio Mori (con
prefazione di Beppino) scrive che Eluana è il simbolo di una lotta culturale
per dimostrare che la vita umana non è sacra. Lotta per un simbolo, dunque, non
per il bene di una figlia (la cui vita non è sacra!). Così, almeno, a me
appare.
L’inquietudine cresce quando si cercano paragoni di
coerenza. Se si ammettesse, per esempio, il principio soggettivistico che
nessuno ha diritto di giudicare quello che gli altri reputino (o conclamino
come) amore e dolore legittimo, che strumenti resterebbero per contrariare, ad
esempio, la pedofilia quando (com’è successo di recente col partito pedofilo) essa
si propone come forma legittima di amore per i bambini e come legame positivo
di amore e di crescita reciproca tra le generazioni? Per chi ha provato a
leggere le argomentazioni di questi pedofili “istruiti”, non è affatto
difficile fare il due più due. Essi affermano che sarebbe un dolore illegittimo
separare loro dai loro giovinetti. Per chi ha visto quel bellissimo film dal
titolo “Quel che resta del giorno”, non è difficile immaginare che un approccio
sbagliato alla letteratura sulla razza ebrea ai tempi del nazismo abbia potuto
portare alcuni studiosi a pensare che gli ebrei avevano effettivamente una
dignità umana inferiore e che potevano essere sacrificati per il miglioramento
hegeliano (una più alta sintesi) dell’umano nella storia. E che dire di casi di
incesto in cui padre e figlia piccola dichiarassero di amarsi profondamente e
di non poter fare a meno sessualmente l’uno dell’altra? Come giudicare questo
amore e questo dolore se l’unica cosa che ci rimane è il principio che nessuno
ha il monopolio dell’amore e del dolore e che… bisogna fare silenzio?
Come credente, devo dire che l’inquietudine di questi giorni
mi richiama alla mente quel passo del Vangelo sugli ultimi tempi, in cui Gesù
dice che se essi non verranno abbreviati neppure i giusti si salveranno. Sarà
la deformazione professionale, ma io intendo sempre quel passo più o meno nel
senso implicato dalla frase di Giovanni Paolo II citata poc’anzi. In fondo,
qual è la tentazione più grande per i giusti, quella fisica di stelle che
cadono dal cielo, o quella etica e intellettuale di un ambiente culturale così
ostile da far perdere credibilità ai princìpi tradizionali della morale? Per
me, questa è la vera tentazione e il vero segno degli ultimi tempi. Ma torniamo
alla semplice (e sola, troppo spesso abbandonata) ragione.
C’è un altro aspetto che fa da sfondo al dibattito sul caso
Eluana e che lascia turbati. È un aspetto che riguarda la violenza: una
violenza che si sostituisce alla giustizia e al bene morale. È proprio
l’ambiente culturale nichilista, quell’ambiente che porta al non giudicare e al
giustificare tutti, che porta anche con sé una schiacciante vittoria teorica e
pratica della violenza sulla giustizia. L’idea è che, non essendoci una verità
di riferimento per giudicare le situazioni in maniera oggettiva
(indipendentemente, cioè, dai desideri dei soggetti coinvolti), resta che le
nostre regole pubbliche e i nostri princìpi giuridici (anche i più necessari
all’ordine sociale) sono solo espressione di un paradigma culturale prevalente
in una certa società in un certo momento storico, e quindi sono solo violenza
che impone con la forza pubblica le proprie idee alle minoranze. Oggi sono
tutti bravissimi e prontissimi a incentrare i loro discorsi sui paradigmi
culturali e le analisi sociali: questo perché, dove non c’è più il pensiero
veritativo, la sociologia a la statistica si sostituiscono alla filosofia. La
giustizia, però, non può essere separata dalla verità. Non si può dire: «È
giusto che tu faccia questo perché noi siamo di più e lo vogliamo», o «perché
molti, quasi tutti, fanno così». Questo discorso sofistico ha giustificato
nella storia il razzismo e tante altre barbarie culturali. La giustizia ha sì
bisogno della maggioranza culturale e politica per essere giuridicamente
rispettata, ma ha anche bisogno di una giustificazione basata sulla verità
dell’atto che si reputi giusto o ingiusto. Chi non capisce questo è già pronto
per l’ennesima violenza storica contro i deboli e le minoranze. La verità e la
giustizia “giudicano” per definizione, e agiscono sulla base dei loro giudizi.
Ma qui la (triste) verità è un’altra. È che a nessuno, sul
serio, importa più della vita e dell’esistenza di chi non risponde agli
standard di benessere, salute e piacere della nostra società mediatica. Se muore
una procace valletta televisiva la gente piange e si dispera, se si tratta di
un disabile, invece, di un anziano o di un malato grave (magari in coma) c’è
una certa indifferenza, addirittura sollievo. È paradossale che la crisi del
pensiero veritativo vada così perfettamente a braccetto con questa certezza
culturale assoluta su che cos’è che rende la vita degna di esistere. Nella
cultura oggi predominante, insieme al pensiero oggettivo, sono spariti il
mistero e la sacralità. Ma chi può dire che una vita è più degna di un’altra?
Chi può permettersi di esprimere un tale giudizio? La ragione dell’uomo
contemporaneo si prende in giro facilmente, giudicando in base a una fede
religiosa nuova secondo cui i corpi muscolosi e procaci determinano il grado di
dignità dell’esistenza umana. Ma la ragione vera dovrebbe ribellarsi, e
inchinarsi di fronte al mistero di molte vite “inutili” e “deboli” la cui
esistenza lascia dietro di sé una tale scia di amore e di pienezza che, al
confronto, l’intero mercato televisivo potrebbe sprofondare in un baratro senza
quasi essere notato.
Ed ecco un altro paradosso: che la sacralità della vita è
l’unica difesa autentica della democrazia e di quel principio di autonomia di
cui gli illuministi contemporanei fanno un così gran parlare. Certo, essi non
lo dicono, ma la loro è l’autonomia di chi è forte e procace, o magari bianco e
di sesso maschile: sì, insomma, di chi è così fortunato da essere il soggetto
forte secondo i paradigmi culturali del momento. È sconcertante la disinvoltura
di chi ha messo a morte Eluana nonostante non ci sia mai stata una
manifestazione di volontà chiara, espressa e certa da parte della fanciulla.
Qui i giocatori scoprono le loro carte. Non importano i diritti dell’uomo,
l’autonomia, la non discriminazione degli esseri umani prevista dall’articolo 3
della Costituzione: Eluana, le altre vite umane che capitano a puntino, non
sono sacre, e sono strumentalizzabili e sacrificabili alle lotte politiche che
i sedicenti difensori della (propria) autonomia decidano volta per volta di
combattere. Altro che ragione contro la fede. Qui non ci sono più né l’una né
l’altra: c’è solo il cinismo di una cultura utilitarista e disillusa in cui i
più forti la fanno da padroni.
Alcune lettere e interventi pubblici di questi giorni
confermano una mancanza di interesse per l’esistenza umana che è ormai per
molti un filtro culturale attraverso cui si guarda la società. Dietro
l’apparente cura per la libertà, si nasconde in realtà un nichilismo disilluso,
una indifferenza per la vita e per l’uomo, la cui esistenza e il cui destino
non hanno ormai un valore assoluto, men che meno soprannaturale. Che la morte
assurda di Eluana ci aiuti! Che la sua vita “inutile” lasci traccia nei nostri
cuori e li illumini sul mistero della dignità e sacralità dell’esistenza umana!
Questo primo numero cartaceo della nostra rivista si apre
con un intervento di Robert Spaemann su Habermas e la bioetica che Giovanni
Magrì ha specificamente tradotto per noi dal tedesco. Seguono due articoli che
Carmelo Vigna ed Eugenio Lecaldano hanno preparato in occasione di uno dei
convegni palermitani promossi dalla redazione di Questioni di Bioetica e che,
come sanno bene i nostri lettori, si ispirano ai princìpi di un sano pluralismo
in cui autori di primo piano del dibattito pubblico esprimo in libertà le
proprie idee, anche quando tra loro contrapposte, o contrarie alla linea
editoriale della rivista. I testi di Vigna e Lecaldano, in particolare,
riprendono da angolature diverse il tema dei manifesti di bioetica che diversi
intellettuali italiani hanno firmato e proposto all’attenzione pubblica nel
2007. Vigna, firmatario del manifesto “Una ragione pubblica per la bioetica” è
in polemica soprattutto con Francesco D’Agostino, firmatario del “Manifesto per
una bioetica critica”; mentre Lecaldano difende il “Nuovo manifesto di bioetica
laica”, firmato anzitutto da Maurizio Mori. Naturalmente, sono diversi gli
interventi in questo numero che toccano il caso di Eluana: soprattutto, gli
articoli di Marianna Gensabella Furnari, “Lasciar morire? Gli interrogativi
etici aperti dalla sospensione di idratazione e alimentazione in pazienti da
anni in stati vegetativi”, e di Luciano Sesta, “Quando la coscienza dorme. Un
contributo al dibattito sul caso Englaro”; ma anche le note di Salvino Leone,
Giorgio Palumbo e Giuseppe Savagnone, il quale si concentra anche sul dramma
della vita dei clandestini. La nota di Francesco Ferrara riguarda, invece, il
problema etico delle cellule staminali embrionali. Seguono, come sempre, la
Rassegna Stampa, le Recensioni e le Novità Bibliografiche. Questa versione
cartacea è una grande nuova avventura in cui speriamo vivamente che i lettori
ci accompagnino e ci aiutino con il loro gradimento e sostegno.