Alcuni
interventi che ho appena letto, incluso l’ultimo editoriale di Riccardo
Cascioli, “
Viganò si dimette, ma niente scuse a Benedetto XVI”, mi hanno spinto
a rileggere con attenzione la lettera di dimissioni di Viganò e quella di
risposta del Papa in cui esse vengono accettate.
La mia prima
preoccupazione è stata di cercare di trovarvi qualche traccia etica: vale a
dire, qualche elemento da cui emergesse un lavorio positivo della coscienza
morale rispetto agli eventi che hanno portato a quelle due lettere. La mia
mentalità da esperto di filosofia morale mi porta infatti ad un approccio
piuttosto semplice alla questione: se si ricopre un incarico di responsabilità
e non si hanno motivi personali fisiologici per lasciarlo (come l’opportunità
di cambiare lavoro o un trasferimento familiare), ci si dimette solo se si è
fatto qualcosa di grave (cioè, per colpa) o se si reputa di non essere
all’altezza di tale incarico (cioè, per incapacità). Altrimenti, se sottoposti
ad attacchi e critiche ingiuste, e anche a costo di apparire impopolari, il
senso di responsabilità e le virtù personali porteranno semmai ad impegnarsi
ancora di più in quell’incarico. Le avversità fortificano le persone virtuose
nelle loro decisioni. Le accuse ingiuste non portano a rinunciare ai propri
impegni ma a portarli a compimento con maggiore determinazione. Le dimissioni
(quelle etiche) sono invece un umile ammissione di colpa o di incapacità.
Ci sono anche
dimissioni non etiche. Me ne vengono in mente due tipi. Uno è quello di chi si
dimette sotto il peso delle pressioni dei critici o dell’opinione pubblica. Queste
dimissioni sono un atto di vigliaccheria o di debolezza, e possono essere positive
perché fanno sì che persone codarde o deboli lascino i posti di responsabilità
a gente più virtuosa. L’altro è quello utilitarista o machiavellico, di chi si
dimette per un calcolo (più o meno sofisticato) di vantaggi che, per ipotesi, dovrebbero
seguire alle dimissioni. Queste dimissioni sono viste in genere come un atto di
“buona comunicazione”: cioè, sono un atto che tende a modificare in positivo
l’atteggiamento dell’opinione pubblica. Proprio perché frutto di un mero
calcolo utilitarista, queste dimissioni non sono in genere accompagnate da
alcun pentimento o riconoscimento di colpa e spesso, come suggerisce Cascioli,
sono frutto di un accordo tra i soggetti coinvolti.
Sono queste
le tracce etiche che cercavo. Mi sono chiesto se fosse davvero possibile che le
due lettere relative alle dimissioni non contenessero alcun giudizio etico di
condanna per il modo in cui sono stati trattati Benedetto XVI, la sua lettera
“riservata personale” e l’opinione pubblica. Purtroppo, con mio sommo dispiacere,
non ho trovato alcuna di queste tracce etiche in quello scambio. Non ho trovato
neanche tracce di vigliaccheria. Ho invece trovato molte tracce di
machiavellismo comunicativo.
Questa è
un’occasione “comunicativa” sprecata perché la migliore comunicazione è quella
semplice e vera: quella, cioè, da cui i lettori capiscono di avere di fronte
persone che riconoscono i propri sbagli, che proprio per questo sono
affidabili, e che dimostrano di agire con lo stesso buon senso di chi era
rimasto dispiaciuto, perplesso, scandalizzato o offeso di fronte agli eventi
incriminati. Chi ha la forza di dire «Ho sbagliato», «Scusate», merita fiducia e merita
anche una seconda chance. Chiedere scusa è un’energia dirompente in grado di abbattere
ed eliminare subito la barriera tra chi ha offeso e chi è stato offeso. L’operazione
machiavellica, invece, lascia quella barriera intatta e addirittura la rinsalda
perché rende manifesto che tra i due lati dell’operazione comunicativa ci sono
logiche e giochi di potere completamente diversi.
La vera
occasione sprecata, però, è quella etica. Il buon senso della reazione pubblica
alla manipolazione della lettera di Benedetto XVI avrebbe dovuto portare le
coscienze dei soggetti interessati, e quella di Viganò in prima persona, a condannare
quanto era stato fatto piuttosto che a cercare di nasconderlo. A volte questi sono
peccati di ingenuità. Tutti possiamo facilmente immaginare le tentazioni di chi
lavora a quel livello di comunicazioni per un’istituzione come la Santa Sede. I
comunicatori sono le prime vittime dell’opinione pubblica. Il peccato più
grande dei comunicatori, sotto questo profilo, è quello di preferire l’apparire
alla verità: cioè, di preferire il successo nel veicolare favorevolmente l’opinione
pubblica verso se stessi o le proprie istituzioni alla verità di quel che viene
comunicato. Nonostante la tentazione dell’apparire sia così forte in questi
ambiti lavorativi, alle persone virtuose, specialmente se cristiane, dovrebbero
subito cadere le squame dagli occhi quando la verità viene a galla. È il
peccatore che merita la Redenzione, sempre che riconosca il proprio peccato e
si penta. Il peccatore pentito merita anche l’elogio di tutti noi (peccatori) e
dell’opinione pubblica (peccatrice spesso della peggiore specie).
È questa
quindi la vera occasione sprecata. Quanto sarebbe cresciuto Viganò in statura
etica, di fronte a Dio e di fronte a tutti noi, se avesse detto semplicemente: «Sono
profondamente addolorato per quanto ho fatto. Spinto da una certa ingenuità nel
difendere o promuovere il Santo Padre, ho ingiustamente divulgato una lettera
privata di Benedetto XVI alterandone il significato. Ciò facendo, ho offeso,
non solo Benedetto XVI, a cui per primo vanno le mie più profonde scuse, ma anche
l’opinione pubblica e perfino Papa Francesco». Una lettera di dimissioni
scritta secondo questo stile avrebbe quasi certamente dovuto essere rifiutata
perché il peccatore pentito è più affidabile di chiunque altro e merita quasi
sempre una seconda occasione. Peccato.
La terza
occasione sprecata è quella della leadership, che, se vogliamo, è
un’applicazione contemporanea della vecchia virtù morale della prudenza
politica. Quel che ho detto delle dimissioni, infatti, vale anche per chi deve
decidere se accettarle o meno. Più un leader è grande più è lui che deve
guidare gli altri al bene piuttosto che lasciare che siano gli altri a guidarlo.
Leader è appunto colui che guida o dirige altre persone. Un leader non dovrebbe
mai accettare le dimissioni di un dirigente che aveva precedentemente nominato
se costui è “innocente” e “capace”. Anche nella lettera di Papa Francesco ho quindi
cercato invano motivi etici in grado di giustificare l’accettazione delle
dimissioni di Viganò. L’unica cosa che emerge è invece che i motivi per
accettarle sono gli stessi “motivi comunicativi” che caratterizzano la lettera
di Viganò. L’unica preoccupazione di entrambi è l’opinione pubblica.
Anche qui,
cerchiamo di semplificare l’approccio etico alla questione. Che cosa avrebbe
richiesto la virtù della leadership di fronte alla lettera di Viganò? Posto che
egli non appare pentito, ci sono soltanto due alternative concettuali che
dipendono dalla possibile (ed opposta) valutazione etica dei fatti. Se si
riconosce che l’uso della lettera di Benedetto XVI è stato eticamente
sbagliato, le dimissioni andavano accettate per il semplice fatto che Viganò,
non capendolo, ha dimostrato di non essere adatto ad agire e comunicare
correttamente in conformità alla morale cattolica. In questo caso, però,
l’accettazione delle dimissioni andava fatta senza edulcorarne il significato e
l’efficacia con lodi ed altri incarichi. Se invece si ritiene che l’uso della
lettera sia stato legittimo ma solo frainteso dall’opinione pubblica, le
dimissioni andavano respinte confermando piena fiducia nell’operato del proprio
dirigente. Anche qui, purtroppo, si è scelta invece la terza via. Non si è
riconosciuta alcuna mancanza etica, ma in modo poco chiaro sono state accettate
le dimissioni di Viganò pur lodandolo e volendolo mantenere alla guida della
propria macchina comunicativa. Una tale scelta rafforza la barriera
comunicativa tra il Vaticano e la gente, anche se, all’apparenza di alcuni, ha
sgonfiato l’attenzione momentanea dei mass media sulla vicenda. Speriamo che in
futuro, splendide occasioni di redenzione come questa non vadano più sprecate.
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La lettera di Viganò e la risposta del Papa:
Secretaria Pro Communicatione
Città del Vaticano, 19 marzo 2018
Padre Santo,
in questi ultimi giorni si sono sollevate molte polemiche
circa il mio operato che, al di là delle intenzioni, destabilizza il complesso
e grande lavoro di riforma che Lei mi ha affidato nel giugno del 2015 e che
vede ora, grazie al contributo di moltissime persone a partire dal personale,
compiere il tratto finale.
La ringrazio per l'accompagnamento paterno e saldo che mi ha
offerto con generosità in questo tempo e per la rinnovata stima che ha voluto
manifestarmi anche nel nostro ultimo incontro.
Nel rispetto delle persone, però, che con me hanno lavorato
in questi anni e per evitare che la mia persona possa in qualche modo
ritardare, danneggiare o addirittura bloccare quanto già stabilito del Motu
Proprio "L'attuale contesto comunicativo" del 27 giugno 2015, e
soprattutto, per l'amore alla Chiesa e a Lei Santo Padre, Le chiedo di
accogliere il mio desiderio di farmi in disparte rendendomi, se Lei lo
desidera, disponibile a collaborare in altre modalità.
In occasione degli auguri di Natale alla Curia nel 2016, Lei
ricordava come "la riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con
uomini 'rinnovati' e non semplicemente con 'nuovi' uomini. Non basta
accontentarsi di cambiare il personale, ma occorre portare i membri della Curia
a rinnovarsi spiritualmente, umanamente e professionalmente. La riforma della
Curia non si attua in nessun modo con il cambiamento 'delle' persone - che
senz'altro avviene e avverrà - ma con la conversione e 'nelle' persone".
Credo che il "farmi in disparte" sia per me
occasione feconda di rinnovamento o, ricordando l'incontro di Gesù con Nicodemo
(Gv 31,1) [sic - capitolo inesistente], il tempo nel quale imparare a
"rinascere dall'alto". Del resto non è la Chiesa dei ruoli che Lei ci
ha insegnato ad amare e a vivere, ma quella del servizio, stile che da sempre
ho cercato di vivere.
Padre Santo, La ringrazio se vorrà accogliere questo mio
"farmi in disparte" perché la Chiesa e il suo cammino possa
riprendere con decisione guidata allo Spirito di Dio.
Nel chiederLe la sua benedizione, Le assicuro una preghiera
per il suo ministero e per il cammino di riforma intrapreso.
Dario E. Viganò
Reverendissimo Signore
Mons. Dario Edoardo Viganò
Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede
Città del Vaticano, 21 marzo 2018
Reverendissimo Monsignore
A seguito dei nostri ultimi incontri e dopo aver a lungo
riflettuto e attentamente ponderate le motivazioni della sua richiesta a
compiere "un passo indietro" nella responsabilità diretta del
Dicastero per le comunicazioni, rispetto la sua decisione e accolgo, non senza
qualche fatica, le dimissioni da Prefetto.
Le chiedo di proseguire restando presso il Dicastero,
nominandola come Assessore per il Dicastero della comunicazione per poter dare
il suo contributo umano e professionale al nuovo Prefetto al progetto di
riforma voluto dal Consiglio dei Cardinali, da me approvato e regolarmente
condiviso. Riforma ormai giunta al tratto conclusivo con I'imminente fusione
dell'Osservatore Romano all'interno dell'unico sistema comunicativo della Santa
Sede e I'accorpamento della Tipografia Vaticana.
Il grande I'impegno [sic] profuso in questi anni nel nuovo
Dicastero con Io stile di disponibile confronto e docilità che ha saputo
mostrare tra i collaboratori e con gli organismi della Curia romana ha reso
evidente come la riforma della Chiesa non sia anzitutto un problema di
organigrammi quanto piuttosto l'acquisizione di uno spirito di servizio.
Mentre La ringrazio per l'umiltà e il profondo "sensus
ecclesiae", volentieri la benedico e la affido a Maria,
Francesco
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