Sunday, April 29, 2018

Caso Eluana: Non giudicare?

Ripropongo la mia introduzione ad un volume della rivista "Questioni di Biotica" del 2009.


Il caso Englaro continua a fare notizia. Guai se non fosse così! Negli ultimi tempi, tutti siamo stati chiamati a pronunciarci su di esso, chi come semplice cittadino in dialogo con la sua coscienza, chi nella sua qualità di studioso, di giornalista, di docente o di intellettuale in dialogo con i suoi lettori e studenti. Quando, con la redazione, abbiamo discusso dell’editoriale di questo numero della rivista, non ci sono stati dubbi. Scelta tematica facile! Difficile il taglio! Come tanti, in tante lezioni e convegni, anch’io ho approfondito specificamente di volta in volta singoli aspetti del caso: dal conflitto giuridico istituzionale, al tipo di legge che bisognerebbe promulgare, al confine medico tra terapia e accanimento terapeutico, alla questione etico antropologica sull’identità della persona e il rispetto che le è dovuto, ecc. Nessun aspetto così specifico, tuttavia, sembrava adatto a questo editoriale, soprattutto in giorni in cui gli interventi pubblici degli studiosi e degli addetti ai lavori si moltiplicano sempre di più (alcuni anche per disattenzione e fuga di notizie).

In questo caso, bisogna concentrarsi piuttosto su alcuni aspetti di fondo che devono necessariamente colpire di più chiunque di noi si guardi intorno, magari un po’ sconsolato e sfiduciato, cercando di capire che cosa ci stia succedendo. La prima cosa che appare, allora è un certo imborghesimento e tiepidezza del bene morale che circonda l’approccio culturale più diffuso alla questione: una sorta di nichilismo etico che diventa paradigma culturale e valore guida, una disillusione sulla verità che si trasforma in rifiuto di giudicare e in giudizio di assoluzione per chiunque, qualunque cosa faccia. Ci si è detto che nessuno ha il monopolio di che cosa significhino dolore e amore e che, pertanto, bisognerebbe lasciare in pace il padre di Eluana e… “fare silenzio”. Quest’idea, lo confesso, mi lascia profondamente inquieto.

Giovanni Paolo II, al principio dell’enciclica Evangelium Vitae (documento di estrema attualità e forza intellettuale), e di fronte al prospetto di tanti delitti perpetrati oggi contro la vita umana, scrive che «se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell’eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana» (n. 4).

Non è forse questo che sta dietro gli appelli al silenzio e al non giudicare? Una cultura che non si cura più della distinzione tra bene e male, e che per ciò si rifiuta diffusamente di leggere e di interpretare l’amore e il dolore in relazione ai gesti e alle azioni concrete che li veicolano e li rendono presenti? Quando parlo di dolore mi riferisco, naturalmente, al dolore che nasce dall’amore generoso e disinteressato, e che merita pertanto rispetto e attenzione morale. Sì, perché il dolore in sé lo provano tutti: i buoni e i cattivi. L’avaro prova dolore quando non ha le sue ricchezze, lo stupratore quando non può abusare della sua vittima, il criminale quando è chiuso in carcere, l’egoista quando si deve sacrificare per gli altri, il peccatore quando si parla pubblicamente dei sui peccati. Il dolore, come tale, non merita alcun rispetto! Quello che merita rispetto (e venerazione!) è il dolore di chi non si stanca mai di accudire gli altri, di sacrificarsi per loro e di sperare. Come non leggere l’autenticità dell’amore nelle azioni delle suore che si sono prese cura di Eluana per così tanti anni? E come non avere qualche dubbio sul significato del vero amore di fronte a un genitore che, fin da subito (prima ancora che si potesse parlare di stato vegetativo, persistente o quant’altro), ha chiesto che si “staccasse la spina!”, e che per diciassette anni si è semplicemente battuto per questo: non per accudire, assistere, sperare, amare… ma per farla finita?

Certo, in morale esistono il giudizio oggettivo sulle azioni, da una parte, e il giudizio sulla responsabilità soggettiva, dall’altra. È perfettamente possibile che qualcuno compia un atto cattivo (perfino uccidere un’altra persona) pensando di fare una cosa buona. In questi casi, finanche il diritto offre possibilità di impunità o di sconti sulla pena. Questo però non inficia e non può bloccare il giudizio etico sull’oggettività e il significato oggettivo degli atti. Le due cose non si possono confondere. E nessuno può pretendere che non si giudichino per quello che sono. Io non ho elementi, naturalmente, per giudicare la coscienza e la responsabilità soggettiva di Beppino Englaro. Ma l’idea che non si possano giudicare i suoi gesti oggettivi di questi anni mi inquieta, e mi sembra una violenza ingiustificabile contro la mia coscienza e contro quella di tante altre persone. Nell’analisi degli atti concreti, inoltre, l’impegno politico di Beppino e la sua combutta con diverse associazioni radicali e pro eutanasia giocano certamente in suo sfavore. D’altronde, lo stesso Maurizio Mori (con prefazione di Beppino) scrive che Eluana è il simbolo di una lotta culturale per dimostrare che la vita umana non è sacra. Lotta per un simbolo, dunque, non per il bene di una figlia (la cui vita non è sacra!). Così, almeno, a me appare.

L’inquietudine cresce quando si cercano paragoni di coerenza. Se si ammettesse, per esempio, il principio soggettivistico che nessuno ha diritto di giudicare quello che gli altri reputino (o conclamino come) amore e dolore legittimo, che strumenti resterebbero per contrariare, ad esempio, la pedofilia quando (com’è successo di recente col partito pedofilo) essa si propone come forma legittima di amore per i bambini e come legame positivo di amore e di crescita reciproca tra le generazioni? Per chi ha provato a leggere le argomentazioni di questi pedofili “istruiti”, non è affatto difficile fare il due più due. Essi affermano che sarebbe un dolore illegittimo separare loro dai loro giovinetti. Per chi ha visto quel bellissimo film dal titolo “Quel che resta del giorno”, non è difficile immaginare che un approccio sbagliato alla letteratura sulla razza ebrea ai tempi del nazismo abbia potuto portare alcuni studiosi a pensare che gli ebrei avevano effettivamente una dignità umana inferiore e che potevano essere sacrificati per il miglioramento hegeliano (una più alta sintesi) dell’umano nella storia. E che dire di casi di incesto in cui padre e figlia piccola dichiarassero di amarsi profondamente e di non poter fare a meno sessualmente l’uno dell’altra? Come giudicare questo amore e questo dolore se l’unica cosa che ci rimane è il principio che nessuno ha il monopolio dell’amore e del dolore e che… bisogna fare silenzio?

Come credente, devo dire che l’inquietudine di questi giorni mi richiama alla mente quel passo del Vangelo sugli ultimi tempi, in cui Gesù dice che se essi non verranno abbreviati neppure i giusti si salveranno. Sarà la deformazione professionale, ma io intendo sempre quel passo più o meno nel senso implicato dalla frase di Giovanni Paolo II citata poc’anzi. In fondo, qual è la tentazione più grande per i giusti, quella fisica di stelle che cadono dal cielo, o quella etica e intellettuale di un ambiente culturale così ostile da far perdere credibilità ai princìpi tradizionali della morale? Per me, questa è la vera tentazione e il vero segno degli ultimi tempi. Ma torniamo alla semplice (e sola, troppo spesso abbandonata) ragione.

C’è un altro aspetto che fa da sfondo al dibattito sul caso Eluana e che lascia turbati. È un aspetto che riguarda la violenza: una violenza che si sostituisce alla giustizia e al bene morale. È proprio l’ambiente culturale nichilista, quell’ambiente che porta al non giudicare e al giustificare tutti, che porta anche con sé una schiacciante vittoria teorica e pratica della violenza sulla giustizia. L’idea è che, non essendoci una verità di riferimento per giudicare le situazioni in maniera oggettiva (indipendentemente, cioè, dai desideri dei soggetti coinvolti), resta che le nostre regole pubbliche e i nostri princìpi giuridici (anche i più necessari all’ordine sociale) sono solo espressione di un paradigma culturale prevalente in una certa società in un certo momento storico, e quindi sono solo violenza che impone con la forza pubblica le proprie idee alle minoranze. Oggi sono tutti bravissimi e prontissimi a incentrare i loro discorsi sui paradigmi culturali e le analisi sociali: questo perché, dove non c’è più il pensiero veritativo, la sociologia a la statistica si sostituiscono alla filosofia. La giustizia, però, non può essere separata dalla verità. Non si può dire: «È giusto che tu faccia questo perché noi siamo di più e lo vogliamo», o «perché molti, quasi tutti, fanno così». Questo discorso sofistico ha giustificato nella storia il razzismo e tante altre barbarie culturali. La giustizia ha sì bisogno della maggioranza culturale e politica per essere giuridicamente rispettata, ma ha anche bisogno di una giustificazione basata sulla verità dell’atto che si reputi giusto o ingiusto. Chi non capisce questo è già pronto per l’ennesima violenza storica contro i deboli e le minoranze. La verità e la giustizia “giudicano” per definizione, e agiscono sulla base dei loro giudizi.

Ma qui la (triste) verità è un’altra. È che a nessuno, sul serio, importa più della vita e dell’esistenza di chi non risponde agli standard di benessere, salute e piacere della nostra società mediatica. Se muore una procace valletta televisiva la gente piange e si dispera, se si tratta di un disabile, invece, di un anziano o di un malato grave (magari in coma) c’è una certa indifferenza, addirittura sollievo. È paradossale che la crisi del pensiero veritativo vada così perfettamente a braccetto con questa certezza culturale assoluta su che cos’è che rende la vita degna di esistere. Nella cultura oggi predominante, insieme al pensiero oggettivo, sono spariti il mistero e la sacralità. Ma chi può dire che una vita è più degna di un’altra? Chi può permettersi di esprimere un tale giudizio? La ragione dell’uomo contemporaneo si prende in giro facilmente, giudicando in base a una fede religiosa nuova secondo cui i corpi muscolosi e procaci determinano il grado di dignità dell’esistenza umana. Ma la ragione vera dovrebbe ribellarsi, e inchinarsi di fronte al mistero di molte vite “inutili” e “deboli” la cui esistenza lascia dietro di sé una tale scia di amore e di pienezza che, al confronto, l’intero mercato televisivo potrebbe sprofondare in un baratro senza quasi essere notato.

Ed ecco un altro paradosso: che la sacralità della vita è l’unica difesa autentica della democrazia e di quel principio di autonomia di cui gli illuministi contemporanei fanno un così gran parlare. Certo, essi non lo dicono, ma la loro è l’autonomia di chi è forte e procace, o magari bianco e di sesso maschile: sì, insomma, di chi è così fortunato da essere il soggetto forte secondo i paradigmi culturali del momento. È sconcertante la disinvoltura di chi ha messo a morte Eluana nonostante non ci sia mai stata una manifestazione di volontà chiara, espressa e certa da parte della fanciulla. Qui i giocatori scoprono le loro carte. Non importano i diritti dell’uomo, l’autonomia, la non discriminazione degli esseri umani prevista dall’articolo 3 della Costituzione: Eluana, le altre vite umane che capitano a puntino, non sono sacre, e sono strumentalizzabili e sacrificabili alle lotte politiche che i sedicenti difensori della (propria) autonomia decidano volta per volta di combattere. Altro che ragione contro la fede. Qui non ci sono più né l’una né l’altra: c’è solo il cinismo di una cultura utilitarista e disillusa in cui i più forti la fanno da padroni.

Alcune lettere e interventi pubblici di questi giorni confermano una mancanza di interesse per l’esistenza umana che è ormai per molti un filtro culturale attraverso cui si guarda la società. Dietro l’apparente cura per la libertà, si nasconde in realtà un nichilismo disilluso, una indifferenza per la vita e per l’uomo, la cui esistenza e il cui destino non hanno ormai un valore assoluto, men che meno soprannaturale. Che la morte assurda di Eluana ci aiuti! Che la sua vita “inutile” lasci traccia nei nostri cuori e li illumini sul mistero della dignità e sacralità dell’esistenza umana!


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Questo primo numero cartaceo della nostra rivista si apre con un intervento di Robert Spaemann su Habermas e la bioetica che Giovanni Magrì ha specificamente tradotto per noi dal tedesco. Seguono due articoli che Carmelo Vigna ed Eugenio Lecaldano hanno preparato in occasione di uno dei convegni palermitani promossi dalla redazione di Questioni di Bioetica e che, come sanno bene i nostri lettori, si ispirano ai princìpi di un sano pluralismo in cui autori di primo piano del dibattito pubblico esprimo in libertà le proprie idee, anche quando tra loro contrapposte, o contrarie alla linea editoriale della rivista. I testi di Vigna e Lecaldano, in particolare, riprendono da angolature diverse il tema dei manifesti di bioetica che diversi intellettuali italiani hanno firmato e proposto all’attenzione pubblica nel 2007. Vigna, firmatario del manifesto “Una ragione pubblica per la bioetica” è in polemica soprattutto con Francesco D’Agostino, firmatario del “Manifesto per una bioetica critica”; mentre Lecaldano difende il “Nuovo manifesto di bioetica laica”, firmato anzitutto da Maurizio Mori. Naturalmente, sono diversi gli interventi in questo numero che toccano il caso di Eluana: soprattutto, gli articoli di Marianna Gensabella Furnari, “Lasciar morire? Gli interrogativi etici aperti dalla sospensione di idratazione e alimentazione in pazienti da anni in stati vegetativi”, e di Luciano Sesta, “Quando la coscienza dorme. Un contributo al dibattito sul caso Englaro”; ma anche le note di Salvino Leone, Giorgio Palumbo e Giuseppe Savagnone, il quale si concentra anche sul dramma della vita dei clandestini. La nota di Francesco Ferrara riguarda, invece, il problema etico delle cellule staminali embrionali. Seguono, come sempre, la Rassegna Stampa, le Recensioni e le Novità Bibliografiche. Questa versione cartacea è una grande nuova avventura in cui speriamo vivamente che i lettori ci accompagnino e ci aiutino con il loro gradimento e sostegno.

Thursday, April 26, 2018

I vescovi inglesi come Caifa!


Gli amici de La Nuova Bussola Quotidiana ci informano oggi che l’arcivescovo di Liverpool, Malcom McMahon, ha negato l’assistenza spirituale ad Alfie e ai suoi genitori cacciando via dall’ospedale degli orrori (l’Alder Hay Children Hospital) padre Gabriele Brusco, che si era recato lì dall’Italia vista l’indisponibilità in tal senso del vescovo e di qualsiasi sacerdote inglese. Per i dettagli di questa triste e deprecabile vicenda rinvio all’articolo di Riccardo Cascioli sulla Bussola.

Con questa mossa sorprendente, l’arcivescovo di Liverpool si allinea ai vescovi inglesi, impegnati ufficialmente, non a salvare Alfie e ad offrire conforto ai suoi genitori, ma a difendere l’operato dei giudici e dei medici inglesi. Come i suoi colleghi vescovi, anche lui è attualmente colpevole di complicità in tentato omicidio. Questo va detto molto chiaro. Le leggi inglesi magari non puniranno tutta questa gentaglia, ma moralmente le cose stanno così. I vescovi inglesi sono criminali in quanto complici di chi sta illegittimamente tentando di uccidere Alfie, e potrebbero infine diventare assassini in quanto complici nell’omicidio di Alfie. Questa condotta criminale è enormemente aggravata dallo scandalo pubblico che essi recano sia a tutti gli uomini sia, più in particolare, ai cattolici verso cui posseggono una responsabilità di pastori. Se non in questa vita, verranno adeguatamente puniti nella prossima.

Che differenza con i vescovi americani, che hanno ieri twittato il seguente messaggio:

«Esortiamo tutti i cattolici a unirsi al Santo Padre nel pregare per #AlfieEvans e la sua famiglia e affinché il loro desiderio di cercare nuove forme di cura possa essere esaudito. Possa la dignità della vita di Alfie e della vita umana in generale, specialmente di chi è più vulnerabile, essere rispettata e sostenuta» (traduzione mia).

Questo appello dei vescovi americani pone l’accento sulla dignità della vita di Alfie, mostrando piena consapevolezza del fatto che qui in gioco, prima ancora che mera compassione per l’agonia dei genitori, c’è la vita di un bambino innocente, e che questa vita è un grido che la Chiesa non può ignorare. Al contrario dei messaggi ambigui che in questo periodo sono giunti perfino dal Vaticano (per questo rimando ai miei commenti qui), i vescovi americani ci ricordano che la Chiesa Cattolica è ancora viva e vegeta e che se la brezza dello Spirito Santo viene ostacolata in Europa soffierà ancora più forte da oltre oceano.

I vescovi inglesi, però, stanno facendo molto peggio che macchiarsi di quei crimini ai danni di Alfie. Lo scandalo che stanno dando è ancora più grande.

Emerge già dall’articolo che ho riportato di Cascioli che la preoccupazione primaria dell’arcivescovo di Liverpool nel cacciare padre Brusco era legata al fatto che padre Brusco richiamava il personale dell’ospedale – incaricato di attuare la procedura omicida ai danni di Alfie – al «diritto-dovere dell’obiezione di coscienza». In un post su Facebook di qualche ora fa, l’amico Massimo Introvigne interpreta l’atteggiamento dell’indegno arcivescovo, non in senso «ideologico» rispetto al caso di Alfie, ma come la risultante di due fattori: 1) del «tipico sentimento britannico di difendere il loro sistema sanitario quando è sotto attacco», e 2) del fatto che «tengono famiglia, nel senso che ci sono già iniziative per cacciare i cappellani cattolici dagli ospedali inglesi se criticano l’aborto o il gender, e tenersi buoni gli ospedali sembra una priorità».

In sostanza, i vescovi britannici 1) si sentono, almeno in parte, più britannici che cattolici e 2) sono disposti, pur di tenersi buoni gli ospedali, a sacrificare Alfie. I vescovi inglesi hanno dimenticato che il Cattolicesimo si fonda, non sulla paura dell’autorità, ma sulla persecuzione subita Da Cristo e dai suoi discepoli.

«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra» (Gv, 15,18-20). 

Se per testimoniare la verità di Cristo i sacerdoti inglesi dovranno essere cacciati dagli ospedali, ben venga che siano cacciati. È solo accettando la persecuzione di Cristo che parteciperanno della sua verità. Quel passo del Vangelo è cristallino: la promessa «osserveranno anche la vostra» segue alla promessa «perseguiteranno anche voi». Diventando complici dei giudici e dei medici inglesi per paura della persecuzione, l’unica parola che faranno ascoltare al mondo sarà la parola di morte dei carnefici inglesi.

L’atteggiamento di questi vescovi ha un precedente autorevole, nel senso che è l’atteggiamento dell’autorità che mise a morte Gesù:

«È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» (Gv 18,14).

Che triste parabola quella di questi vescovi, nati per proclamare la buona novella di Gesù Cristo e ridotti a tornare a metterlo a morte nei panni di Alfie Evans. E quanto più grande sarà la loro condanna quando si troveranno ad essere giudicati da quello stesso giudice che fu messo a morte da Caifa e dagli altri sommi sacerdoti.

Santo Padre, c’è ancora tempo per fare il possibile e l’impossibile per salvare Alfie


Ripercorriamo brevemente gli eventi. Il 20 febbraio 2018, il giudice dell’alta corte inglese, Anthony Hayden, noto sostenitore delle adozioni di bambini da parte delle coppie omosessuali, autorizza i medici dell’Alder Hay Children Hospital di Liverpool ad uccidere Alfie Evans, un bimbo di due anni, distaccandolo dai macchinari che gli consentono di respirare e di nutrirsi. È una condanna a morte per soffocamento e per mancanza di acqua e di cibo. Alfie è colpevole di essere un peso per la società. Fornirgli aria e cibo assistendolo in una struttura sanitaria costa. Perché sprecare tante risorse? Alfie è ormai in stato di semi incoscienza da tempo (forse per via degli stessi farmaci somministratigli dai medici) ed è affetto da una malattia rara sconosciuta o ancora non diagnosticata. Non ha più una vita degna di essere vissuta. Il suo miglior interesse, così argomentano i medici e il giudice, è di essere ucciso in quel modo. I genitori? Hayden ritiene che non siano in condizioni di decidere quale sia il miglior bene del figlio. Loro vorrebbero salvarlo, tenerlo in vita. Per tale motivo, viene nominato per Alfie un custode legale. L’esproprio del figlio da parte delle autorità inglesi è completo. I genitori non possono portare il figlio in altre strutture ospedaliere o farlo assistere da altri medici. Possono solo aspettare che la sentenza di morte venga eseguita dai medici dell’ospedale.

Moltissime persone in tutto il mondo sono commosse e affrante per la sofferenza dei genitori e per il destino del piccolo decretato dal giudice Heyden ma la giustizia deve seguire criteri oggettivi. Proprio quando i sentimenti e le emozioni offuscano la mente, è compito dei giudici far sì che si agisca secondo l’oggettività e il miglior interesse delle parti. Questo in sé è giusto. I giudici che, nonostante le pressioni emotive, agiscono con fermezza secondo giustizia vanno lodati.

La cosa più curiosa è che, vista l’appartenenza della famiglia di Alfie alla Chiesa Cattolica, il giudice Hayden, stimolato in tal senso dagli stessi medici dell’ospedale, decide di argomentare la giustizia della sua decisione basandola sulla dottrina cattolica. Così ce lo spiega, in un’intervista rilasciata a Tempi.it, il nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita nominato dal Papa, Monsignor Vincenzo Paglia:

«[è] bene leggere il testo del giudice per intero per comprendere la complessità e la delicatezza della situazione clinica di Alfie. Come pure si deve tener presente – e con serietà – la drammaticità di quello che i genitori stanno vivendo. Alla fine di un’ampia e articolata analisi medica, il giudice, considerando che i genitori sono cattolici, decide di prendere in esame anche la posizione della Chiesa. E si riferisce allora a tre testi, riscontrando tra di essi una completa coerenza: il Catechismo, il documento sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980, il discorso del Papa del 2017».

Paglia non ha dubbi e, alla domanda precisa dell’intervistatore che lo sollecita sul fatto che il giudice Hayden avrebbe quindi deciso la “soppressione” di Alfie in virtù di un ragionamento cattolico che anche il Papa sottoscriverebbe, risponde:

«[…] parlare di “soppressione” non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento terapeutico. Come dice il Catechismo della Chiesa cattolica si tratta cioè di una opzione con cui non si intende «procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (CCC 2278)».


Le parole di Paglia sollevano un polverone. Come fa il nuovo Presidente della Pontificia Accademia per la Vita ad assecondare il giudice inglese sull’interpretazione del caso di Alfie in termini di accanimento terapeutico? Leggiamo l’intero punto del Catechismo in questione:

«2278 L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».


La scelta di parole del Catechismo è cruciale. L’accanimento terapeutico si ha quando si utilizzano procedure mediche «onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate» non idonee ad impedire la morte. In tali casi, la decisione di “staccare la spina” non intende «procurare la morte» ma equivale al riconoscimento da parte di noi creature «di non poterla impedire». Non c’è bisogno di essere membri della Pontificia Accademia per la Vita per capire quanto sia lontano questo punto del Catechismo dall’idea di togliere ad un bambino l’aria e il cibo necessari a vivere. Su questo non dovrebbe esserci bisogno di soffermarsi perché la bioetica cattolica lo ha sempre accettato accuratamente e unanimemente.

Qualche dubbio in passato c’è stato, perfino nelle più alte sfere. L’11 luglio del 2005, S.E. Mons. William S. Skylstad, l’allora Presidente della Conferenza Episcopale statunitense, inviò due quesiti a proposito di nutrimento e idratazione alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Leggiamo questi quesiti e le relative risposte:

Primo quesito: È moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in “stato vegetativo”, a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico?
Risposta: Sì. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione.
Secondo quesito: Se il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente in “stato vegetativo permanente”, possono essere interrotti quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?
Risposta: No. Un paziente in “stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Risposte, decise nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 1° agosto 2007.
William Cardinale Levada
Prefetto

Nelle note di commento a questi quesiti, la Congregazione per la Dottrina della Fede specifica ulteriormente, con parole di Giovanni Paolo II, che:

«L’ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.) […] L’obbligo di non far mancare “le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, parte IV) comprende, infatti, anche l’impiego dell’alimentazione e idratazione (cf. Pontificio Consiglio Cor UnumQuestioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, n. 2.4.4; Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, n. 120). La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione».

Questi chiarimenti non affrontano direttamente il caso della ventilazione, ma la ratio delle indicazioni generali fornite da Giovanni Paolo II sul «diritto ad una assistenza sanitaria di base» è abbastanza ampia da includerla. La ventilazione non serve a tenere in vita a tutti i costi un paziente che sta morendo, ma soltanto a consentirgli di ricevere l’ossigeno. Il paziente soggetto a ventilazione (ma anche a nutrimento e idratazione) può morire per cause naturali come chiunque altro, allo stesso modo di un cardiopatico col bypass o che segua una terapia funzionale a diluire il sangue. La ventilazione è quindi normalmente uno strumento ordinario e proporzionato dell’assistenza sanitaria di base dovuta ad ogni paziente. D’altronde, la ventilazione di Alfie non è delle più invasive. Adesso si riduce ad un tubicino nel naso, e come dimostrano le ultime ore, dopo il primo tentato omicidio, è così poco «straordinaria» che il piccolo ha continuato a respirare anche senza. Per chiarirci: tutti gli strumenti di assistenza, inclusi quello ordinari di base, possono diventare accanimento terapeutico qualora non siano più in condizioni di raggiungere il loro fine, come il nutrimento nel caso della somministrazione di cibo e l’ossigenazione nel caso della ventilazione. Nessuno di questi strumenti implica un assoluto morale. Non bisogna quindi interpretarli in maniera formalistica. Se però sono in condizioni oggettive di farlo non si possono interrompere. Togliere l’ossigeno, il cibo o l’acqua a un paziente non significa consentirgli di morire per cause naturali.

Inoltre, con riguardo ai quesiti riportati, Alfie non è in stato vegetativo permanente, non è neppure in coma, e non è in quello stato di parziale incoscienza poco diagnosticato da più di un anno. Non è neppure detto che sia in stato vegetativo. I medici stessi che lo hanno rapito, impedendo ai genitori di portarlo in altri ospedali e a qualsiasi altro medico di visitarlo, hanno parlato di uno stato semi-vegetativo. Come dicevo, è addirittura possibile che il suo stato attuale sia l’effetto dell’operato di chi pensava che sarebbe morto poco dopo il distacco del respiratore. La sopravvivenza di Alfie al tentato omicidio di ieri è un campanello di allarme sulla fondatezza di quella «ampia e articolata analisi medica», per dirla alla Paglia, che è stata posta dal giudice alla base della sua sentenza di morte. Un altro campanello di allarme per la Chiesa Cattolica, in questa vicenda, sarebbe dovuto subito venire dall’attivismo del giudice in favore delle adozioni omosessuali, in cui al “bene dei figli” è negata una famiglia naturale con un padre e una madre. Chi ha dimestichezza con questo tema, si deve subito interrogare sull’idoneità di un attivista del genere a giudicare del miglior bene di Alfie, togliendolo alla potestà dei genitori e condannandolo a morte. L’etica ha una sua continuità. Non si può capire perfettamente il miglior interesse del bambino in un caso e fraintenderlo completamente in un altro.

Il fatto è che, di fronte alle pretese di questo giudice di sentenziare la morte di Alfie citando il Papa e la dottrina cattolica, le autorità ecclesiastiche, a cominciare dal Papa avrebbero dovuto immediatamente entrare in allerta. Sarebbe bastato poco poi per rendersi conto che il caso di Alfie non ha nulla a che vedere con l’accanimento terapeutico e spiegare ai fedeli cattolici di tutto il mondo che la Chiesa non può tollerare l’eutanasia né per azione né per omissione. Visto anche l’attuale trend dell’Inghilterra e di altri paesi di legittimare di fatto l’eutanasia e l’eugenetica col pretesto dell’accanimento terapeutico, la responsabilità del munus docendi della Chiesa avrebbe dovuto entrare subito al livello di massima allerta.

Lasciamo stare la responsabilità del munus docendi, però, e concentriamoci sul caso di Alfie. Il giudice Hayden è incompetente sulla dottrina cattolica ed è palesemente inadatto a giudicare del miglior interesse di Alfie ma è pur sempre un giudice. Se deve cambiare idea ha bisogno di argomenti oggettivi. Non gli si può dire “Sì, guarda, hai ragione ma considera, per piacere, il dolore dei genitori e la solidarietà di tante persone nel mondo”. Un giudice di coscienza che ritiene di aver deciso bene non può e non deve cedere a richieste di questo tipo. Al giudice Hayden bisognava e bisogna dire chiaramente e con fermezza che ha sbagliato a interpretare sia la dottrina cattolica sia il concetto di accanimento terapeutico. Chiarezza e fermezza su questo punto potrebbero anche cambiare l’atteggiamento di altre autorità britanniche e di quelle fette dell’opinione pubblica che non capiscono perché si debba fare tanto clamore per questo bambino, il cui miglior bene “ufficialmente” consisterebbe nel morire subito per soffocamento e disidratazione. Forse una presa di posizione veritativa forte da parte della Chiesa potrebbe perfino fare uscire la regina Elisabetta dalla totale indifferenza che ha mostrato fino ad ora per la questione.

Chiarire l’oggettiva immoralità di togliere ad Alfie l’aria, l’acqua e il cibo avviando “procedure” intese a faro morire dovrebbe essere la responsabilità primaria e solenne della Chiesa in un caso del genere, non solo rispetto al munus docendi in generale, ma anche rispetto alla possibilità concreta di salvare la vita di questo bambino innocente. La carità cristiana dovrebbe lasciare le novantanove pecore sul monte in questo caso e occuparsi di questa piccolissima pecorella indifesa. Dovrebbe tuonare a tutto il mondo che quel bimbo non si tocca e quale terribile omicidio sarebbe farlo morire per asfissia o di fame e di sete.

La Chiesa ufficiale, invece, quella che ha il potere di dialogare con i potenti del mondo, ha finora scelto l’altra strada delineata da Paglia in quell’intervista. Ha deciso di rinunciare a giudicare il caso di Alfie alla luce delle verità oggettive della morale cattolica, e ha deciso perfino di rinunciare a ricordarle al giudice Hayden e al mondo. L’unica preoccupazione del Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, forse indotta dal dibattito recente su Amoris Laetitia, è di evidenziare che ogni caso concreto richiede “discernimento”, che le questioni morali non si possono semplicemente affrontare incollandovi sopra delle norme astratte. Ora, che l’applicazione e la comprensione delle norme morali richieda prudenza è una verità vecchia e importante ma che non può giustificare il deresponsabilizzarsi. Paglia parla come se dovessimo avere un complesso di inferiorità verso la “complessità” della decisione del giudice e delle perizie dei medici inglesi, come se dovessimo lasciare fare a loro che ne sanno di più. Se fossi maligno penserei che l’obiettivo, forse in consapevole, è anche il consenso di questo mondo, il cercare di farsi belli.

Credo che solo questa impostazione di Paglia possa gettare luce sull’uscita stupefacente dei vescovi inglesi, che si sono preoccupati, non di salvare la vita di Alfie, ma di difendere la professionalità, l’onestà e l’operato dei sui carnefici. Il Vaticano si è mosso con enorme ritardo rispetto al bene di Alfie, sulla scia dell’onda emotiva del dolore dei genitori e dell’esplosione di solidarietà in tutto il mondo. Il Papa ha fatto leva su questo, che però è precisamente ciò di cui le autorità inglesi non hanno bisogno. Anzi, fare leva sui sentimenti e i desideri, cercare di commuovere pensando allo strazio dei genitori, gioca come una conferma della sentenza del giudice e delle decisioni ad essa conseguenti. È come dire al giudice che sul suo ragionamento non c’è nulla da obiettare e chiedergli di agire sulla base delle emozioni.

Rileggiamo i messaggi principali del Papa:

«Affido alla vostra preghiera le persone, come Vincent Lambert, in Francia, il piccolo Alfie Evans, in Inghilterra, e altre in diversi Paesi, che vivono, a volte da lungo tempo, in stato di grave infermità, assistite medicalmente per i bisogni primari. Sono situazioni delicate, molto dolorose e complesse. Preghiamo perché ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita» (Regina Coeli, 15 aprile).

«Commosso per le preghiere e la vasta solidarietà in favore del piccolo Alfie Evans, rinnovo il mio appello perché venga ascoltata la sofferenza dei suoi genitori e venga esaudito il loro desiderio di tentare nuove possibilità di trattamento» (Tweet del 23 aprile).

A parte la genericità di questi messaggi, la cosa che colpisce di più nell’appello del 23 aprile, quello principale da cui ci si aspettava una svolta, è che non c’è alcuna traccia della grave ingiustizia perpetrata ai danni di Alfie. Non ci sono riferimenti ai princìpi oggettivi della morale. Non c’è alcun giudizio veritativo sul fatto che sia immorale provocare la morte di quel bambino innocente. L’appello è fatto in favore della sofferenza dei genitori e del loro desiderio: un appello inutile e controproducente, lo ripeto, per un giudice che (per ipotesi) è tenuto proteggere il miglior interesse di Alfie anche contro i sentimenti dei genitori e contro le pressioni, potenzialmente ingiuste e irrazionali, della gente.

Il Papa ha chiesto di fare il possibile e l’impossibile per salvare Alfie, e tutti abbiamo assistito ai lodevoli sforzi di Mariella Enoc, Presidente del Bambin Gesù di Roma. La cosa “possibile” e auspicabile che può fare il Papa però, dopo aver comunicato empatia ed emozioni, è comunicare la verità. Può dire con chiarezza e fermezza a tutto il mondo che l’accanimento terapeutico non c’entra nulla con il caso di Alfie, che la dottrina cattolica non può essere utilizzata in alcun modo per legittimare l’operato del giudice Hayden, e che provocare la morte di Alfie è una ingiustizia infinita e un peccato gravissimo contro Dio e contro l’umanità. Finora il Papa ha chiesto di salvare Alfie in omaggio al dolore e ai desideri dei genitori. È ora di chiedere di salvare Alfie perché Alfie va salvato. Esiste la possibilità che questa chiarezza sull’oggettività morale, questo appello alla giustizia piuttosto che ai sentimenti, possa nei prossimi giorni salvare questo bambino o contribuire a salvarlo. Questo appello aiuterebbe anche la Chiesa intera, che è testimone di verità, che ha un primato nell’insegnamento della morale, e che non può permettere di cedere il proprio munus ad un giudice inglese che ha già dimostrato in molti modi la sua incompetenza e durezza di cuore.

Friday, April 20, 2018

Ancient Wisdom and Thomistic Wit: An Interview with Author Dr. Fulvio Di Blasi



Thomas International Center Program Coordinator Harrison Lee will be interviewing Dr. Fulvio Di Blasi about his most recent book, Ancient Wisdom and Thomistic Wit: Happiness and the Good Life.

The interview will be broadcasted live on the Thomas International Center’s Facebook page and YouTube channel and then saved as posts on both of those sites.

In Ancient Wisdom and Thomistic Wit, Dr. Fulvio Di Blasi explains difficult ethical concepts and arguments from Thomas Aquinas and his Ancient Greek predecessors, making them accessible even to readers with no previous background in philosophy. All the while, the author makes the topic engaging by demonstrating the relevance of ancient and medieval insights to contemporary life and popular culture. “I have often encountered, both with young students and adults, the difficulty of making them understand the existential meaning, so to speak, of the technical notions of moral philosophy…In my teaching experience, there is no concept, though sophisticated and difficult, that cannot be easily explained even to very young students or to people who have no background knowledge of the scientific field to which that concept belongs” (from the Author’s Introduction). “[Fulvio Di Blasi] may be one of the two or three best young catholic philosophers in the world today” (Ralph McInerny, 2004), From Aristotle to Thomas Aquinas Natural Law, Practical Knoledge, and the Person (2017). Fulvio Di Blasi is an Italian attorney and international scholar expert in moral philosophy and natural law theory. He is the Director of the Thomas International Online University. He has a Ph.D. in Philosophy of Law from the University of Palermo, and has taught in several universities both in Europe and in America. His books include, God and the Natural Law (2003), John Finnis (2008), Ritorno al diritto (2009), and Questioni di Legge Naturale (2009). The book is available in English and Italian.

Persona o libertà?



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La famosa definizione di persona che Tommaso d’Aquino riprende da Boezio (sostanza individuale di natura razionale) viene spesso tacciata di razionalismo come se non potesse arrivare al cuore di ciò che la persona è realmente. Tuttavia, a ben guardare, l’elemento chiave di quella definizione, la razionalità, si definisce in funzione della libertà e della capacità della persona di possedere se stessa tramite le proprie azioni. Con questa accezione di razionalità, Tommaso dimostra di possedere già nella sua filosofia quei tratti della persona come essere autonomo, in grado di dare la legge a se stesso, che affascineranno il pensiero moderno a partire da Rousseau e Kant.

Thursday, April 19, 2018

Discussion on Thomistic Philosophical Anthropology

The discussion of Thomistic Philosophical Anthropology at NC State University with TIC President Fulvio Di Blasi and University of Notre Dame Professors Thérèse and David Cory is now available on TIC YouTube channel

Wednesday, April 18, 2018

Live Streaming Thomistic Anthropology Discussion at NCSU


The Thomas International Center will be broadcasting tonight’s discussion of Thomistic Philosophical Anthropology at NC State University via our Facebook and YouTube Live channels. The discussion-participants will include TIC President Fulvio Di Blasi and University of Notre Dame Professors Thérèse and David Cory. Please tune in and leave your thoughts and questions in the comments! The event will be from 8:00 until (at least) 9:00 PM tonight, 4/18.

The Facebook stream will be available through a post on our Facebook homepage, and the YouTube stream will be available here

To learn more about this event, click here

Monday, April 16, 2018

L'immoralità della contraccezione

Ho reso disponibile, qui su YouTube, il video della lezione che ho tenuto il 14 aprile 2018 in diretta Facebook sull'immoralità della contraccezione.

Buona visione!

Thursday, April 5, 2018

Verità infallibili


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Il 29 giugno 1998, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato un documento che chiarisce quali sono le verità che i cattolici devono credere distinguendole in tre tipologie. Ci sono (1) le verità che sono formalmente e direttamente contenute nel deposito della Fede, (2) le verità che “logicamente” seguono dalle verità della prima categoria, e (3) le verità che “storicamente” seguono dalle verità della prima categoria.

Wednesday, April 4, 2018

Infallible Truths

A very short class on the Infallible Truhs of the Church.


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On June 29, 1998, the Congregation for the Doctrine of the Faith released a document clarifying the three kinds of truths that Catholics must believe. These are (1) Truths that are formally and directly contained in the deposit of the Faith, (2) Truths that logically follow from truths of the first category, and (3) Truths that historically follow from truths of the first category.

Pertini e Giovanni Paolo II come Scalfari e Francesco?

Ho letto oggi un commento online in cui il caso dell’ultima (conclamata e smentita) intervista di Scalfari a Papa Francesco veniva paragonato all’amicizia tra Pertini e Giovanni Paolo II.

Secondo questo commento, Giovanni Paolo II aveva sempre trattato Pertini con grande amicizia senza cercare di convertirlo. Pertini stesso avrebbe raccontato questa cosa pubblicamente dicendo, appunto, che il Papa non aveva mai cercato di convertirlo e che lo aveva semmai lodato per la sua onestà. Giovanni Paolo II, d’altronde, non ha mai smentito Pertini su questi “racconti”, ma ciò naturalmente non significa che il Papa di allora non ritenesse la fede necessaria alla salvezza. Allo stesso modo, Francesco non avrebbe bisogno di smentire quanto riportato da Scalfari sui loro colloqui privati. Su questa stessa linea si sono espressi anche altri commentatori in questi giorni sostenendo, ad esempio, che Francesco non corregge Scalfari pubblicamente perché è più interessato al rapporto di amicizia con lui che alle verità oggettive che Scalfari trae dai loro incontri.

Personalmente, non ricordo bene quei particolari del rapporto tra Pertini e Giovanni Paolo II, ma sembrano abbastanza plausibili e ragionevoli. Il paragone con il caso Scalfari però è improprio e può solo generare confusione tra due piani molto diversi l’uno dall’altro, ossia quello della direzione spirituale del buon pastore di anime con quello delle affermazioni veritative oggettive di chi è depositario del munus docendi.

La direzione spirituale fatta bene, in un contesto di amicizia e fiducia, implica di dire/dare ad una persona quello che in un certo momento ha bisogno di ascoltare/ricevere. Questo non significa dire il falso o comportarsi in modo ambiguo ma esprimere a parole o con i fatti la verità di quel che, nel qui e nell’ora, è bene per una certa persona.

Facciamo un esempio. Se abbiamo di fronte una persona isterica o in preda ad una crisi di nervi per qualcosa che le sia successo, potrebbe essere bene dirle di non pensarci. Se è una persona obesa in crisi per le pressioni psicologiche e fisiche della dieta, potremmo doverle offrire un gelato e invitarla a non pensare alla dieta. Questo non significa che la persona in questione non abbia bisogno della dieta. Le due cose non sono in contrasto l'una con l'altra ed è facile capirlo. Ricordo un amico medico che, per ragioni analoghe, consigliò ad un paziente di ricominciare a fumare.

Molte persone non credenti potrebbero entrare in una crisi molto negativa se sollecitate direttamente sulla fede e sul loro atteggiamento verso Dio. Potrebbero chiudersi a riccio e perfino comportarsi peggio con se stessi e con gli altri. Un personaggio pubblico potrebbe reagire parlando e scrivendo male della fede e di chi crede, generando dubbi anche in molte altre persone. Se trattato con rispetto e amicizia, invece, reagisce in genere con altrettanto rispetto e discrezione. Nel mio piccolo, ho avuto diversi amici atei che per rispetto e amicizia verso di me hanno sempre evitato affermazioni ironiche o irriverenti verso il Cristianesimo. 

Nel caso di tutte queste ed altre persone, la cosa migliore è spesso farli distrarre con un bel gelato, con una sciata o con un caffè sorseggiato in amicizia. Non bisogna mai consentire che il panno nuovo strappi e rovini tutto il vestito. Che ci sarebbe di strano dunque se Giovanni Paolo II non avesse cercato di “convertire” Pertini e se Francesco non cercasse di “convertire” Scalfari? Molto diverso sarebbe invece se Giovanni Paolo II avesse detto a Pertini che non c'è bisogno di credere per salvarsi. Questa sarebbe un’affermazione veritativa sulla fede cristiana e non un modo pastorale (ad personam) di trattare un amico o di fare con lui una buona direzione spirituale.

Ora, lasciamo da parte quanto sia successo sul serio tra Scalfari e il Papa, anche perché io non ho dubbi che, come Giovanni Paolo II con Pertini, anche Francesco cerchi di essere per Scalfari un buon pastore. Il dibattito di questi giorni non riguarda eventuali affermazione ad personam fatte dal Papa a Scalfari per farlo agire, stare o pensare meglio ma alcune presunte verità che il Papa, per ipotesi, potrebbe pensare, ad esempio, sull’inferno o sulla “scomparsa” delle anime dopo la morte. Se nel mondo ci sono persone, sia dentro che fuori la Chiesa, che in seguito alle “interviste” di Scalfari vengono assalite da questo genere di dubbi, allora l’esigenza del munus docendi deve prevalere sul solo interesse pastorale per Scalfari. Il pastore può dedicarsi ad un’unica pecora solo quando le altre 99 sono tranquille sul monte. Tutte le pecorelle che si disperdono meritano la stessa attenzione. Tutte sono quell’unica pecorella.

E poi non si tratterebbe neppure di “correggere” Scalfari nel senso negativo del termine. Un comunicato stampa, da questo punto di vista, è una correzione di gran lunga peggiore del dire simpaticamente e direttamente qualcosa di questo tipo: «Ringrazio l’amico Scalfari per aver riportato con l’arte della sua penna alcune delle cose che ci siamo detti nel nostro ultimo incontro. Volevo però chiarire che su questo punto ci siamo un po’ capiti male. Quando ho parlato delle anime dopo la morte, infatti, intendevo dire che...». Ecco, una correzione del genere avrebbe dato lustro a Scalfari e chiarezza a tutto il Popolo di Dio. È stato invece il comunicato stampa a gettare Scalfari nel discredito pubblico, facendolo attaccare da ogni parte e facendolo tacciare di essere un giornalista disonesto che, come i peggiori manipolatori, riporta interviste mai fatte e frasi virgolettate mai dette. Un articolo decisamente poco interessante che ho letto ieri sosteneva che il Papa non ha bisogno di correggere Scalfari perché è solo interessato a parlargli come amico. L’autore pensava forse di porre in risalto l’altissimo valore dell’amicizia ma dimenticava che “l’amico Scalfari” naviga in acque terribili da cui solo il suo “amico Francesco” avrebbe potuto tirarlo fuori con onore. Bastavano poche parole al posto del comunicato stampa. 

Nessun dibattito simile a quello di questi giorni su Scalfari c’è mai stato sul pensiero di Giovanni Paolo II in relazione ai suoi incontri con Pertini e alla necessità della fede per la salvezza. Questo è prova del fatto che non ce n’era bisogno: cioè, che il popolo dei fedeli non ha avuto dubbi al riguardo. Bisogna infatti tenere presente che questi problemi non sono teorici ma pratici. Non riguardano le buone intenzioni. Se io come docente genero un dubbio in alcuni studenti, non posso semplicemente pensare che sia colpa loro. Il loro dubbio è un “fatto” con cui dovrò confrontarmi. Non importa quindi l’aspetto soggettivo di cosa il Papa abbia voluto dire a Scalfari e non importa quello che Scalfari ne abbia capito. Importa solamente il dubbio che di fatto hanno molti fedeli su quale sia l’effettiva opinione del Papa su alcune questioni importanti per la fede.

Tuesday, April 3, 2018

Form Storm Norm Perform: A Formula for Happiness

In 1965, Bruce Wayne Tuckman, professor of educational psychology at Ohio State University, proposed a formula for group development, which proved to be very successful. It was based on four stages: (1) form, (2), storm, (3) norm, (4) perform.

The overall rationale of this formula is intuitive and common sense oriented. After forming a (supposedly) good team, members will have to get to know one another and interact a lot. Frictions will follow. It is only on the basis of these frictions that the group (if it is to last) will have to develop effective rules of common behavior and collaboration. Their rules will eventually lead the team to successful performance.

The beauty of common sense is that it is always there, and it has always been. Aristotle would have welcomed Tuckman’s formula as a good, simple way to educate friends, including those particular friends that we call husband and wife.

When courtship sparks up, a new and very special team is formed. However, the new friends need to learn who they really are: each one’s habits, tastes, values, relatives, etc. At the beginning, love is often superficial and ungrounded. “I didn’t know he was like this,” “She is not who I thought she was.” Broken relationships are paved with these and similar lines. Tensions reveal who the other person truly is and what s/he really likes and wants. True love requires that we accept our loved one and appreciate the good things that belong to his or her way of being and lifestyle.

First rule, “Never treat your lover’s little things as stupid, trivial or not important!” Second rule, “Never reject those little things, or fight against them!” But, of course, we frequently break that second rule.  So the third rule: “After you reject or fight those little things, find a way to accept and love them!” Many other rules of love and common sense will follow these. Without some “love rules” many friendships and marriages would not survive.

Form Storm Norm Perform: Una formula per la felicità


Nel 1965, Bruce Wayne Tuckman, professore di psicologia educativa all’Università statale dell’Ohio, propose una formula per lo sviluppo dei team, che risultò essere estremamente efficace. La formula si basava su quattro stadi: 1) “Form” (formazione); 2) “Storm” (tempesta); 3) “Norm” (normazione); 4) “Perform” (esecuzione).

La ratio complessiva di questo percorso è intuitiva e di senso comune.

Dopo aver formato una squadra che, per ipotesi, abbia un buon potenziale, i membri dovranno imparare a conoscersi e ad interagire bene tra loro. Inevitabilmente, alle prime interazioni serie seguiranno frizioni, come tutti avremo talvolta sperimentato nei luoghi di lavoro o in altri contesti. Queste frizioni sono importanti perché è solo sulla base di esse che il gruppo (se dovrà durare e crescere) potrà sviluppare regole efficaci di comportamento e di collaborazione. Queste regole condurranno infine la squadra ad una performance di successo.

La bellezza del senso comune è che le verità che vi appartengono sono sempre presenti e facilmente riconoscibili.

Aristotele avrebbe accolto la formula di Tuckman come un modo semplice e positivo di educare all’amicizia, inclusa quell’amicizia peculiare che si genera tra marito e moglie.

Quando scocca la scintilla dell’amore, si inizia a formare una squadra nuova e molto speciale. Tuttavia, i “nuovi amici” dovranno presto imparare a conoscersi sul serio. Dovranno scoprire i rispettivi modi di fare, gusti e valori. Dovranno imparare a conoscere ed apprezzare i parenti e gli amici reciproci.

Al principio, l’amore è spesso superficiale e infondato. “Non sapevo che lui fosse così”, “Lei non è come pensavo che fosse”. Le relazioni che si rompono sono lastricate di frasi di questo tipo. Le tensioni di coppia rivelano chi sia realmente l’altro e cosa davvero voglia o gli piaccia. Il vero amore richiede di accettare l’amato e di apprezzare i lati positivi che appartengono al suo modo di essere e al suo stile di vita.

Prima regola: “Mai considerare le piccole cose della persona amata come stupide, banali o non importanti!”.

Seconda regola: “Mai rifiutare queste piccole cose o combattere contro di esse!”

Purtroppo, però, questa seconda regola viene spesso e quasi inevitabilmente infranta.

Da qui la terza: “Dopo aver rigettato o combattuto queste piccole cose, trovare un modo costruttivo di accettarle ed amarle”.

Molte altre regole d’amore e di senso comune seguono queste tre. Senza qualche “regola d’amore” molte amicizie e matrimoni non sopravvivrebbero perché non potrebbero mai passare dalla tempesta (storm) alla buona esecuzione (perform).

Monday, April 2, 2018

Are We Really Free?

A very short class to explain how freedom depends on knowledge and virtue.

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Are We Really Free? Is a fourteen years old boy really free to choose to study medicine rather than law? In a way, he is. In another sense, if he does not know well the difference between the two types of study, as well as the professions to which law and medicine respectively give access it is difficult to define him as being truly free. Let’s change example. Who is free to choose to play Beethoven’s Ninth Symphony, Rhapsody in Blue by Gershwin or Honky Tonk Train Blues by Keith Emerson? We are all more or less free to put our hands on the keyboard of a piano and move them in some way. But what about playing those songs? The concept of freedom is too often taken for granted, as if freedom was something we already possess and not something to be achieved through commitment, study and virtue.

Sunday, April 1, 2018

Siamo davvero liberi?



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Siamo davvero liberi? In che senso? Un ragazzo di quattordici anni è davvero liberto di scegliere di studiare medicina piuttosto che giurisprudenza? In un certo senso sì. In un altro senso, se non conosce bene la differenza tra i due tipi di studio e tra l’esercizio delle professioni a cui giurisprudenza e medicina danno rispettivamente accesso è difficile definirlo sul serio libero. Cambiamo esempio. Chi è libero di scegliere di suonare la Nona Sinfonia di Beethoven, la Rapsodia in Blu di Gershwin o Honky Tonk Train Blues di Keith Emerson? Tutti siamo più o meno liberi di mettere le nostre mani sulla tastiera di un pianoforte e muoverle in qualche modo, ma suonare quei pezzi? Il concetto di libertà si dà troppo spesso per scontato come se la libertà fosse qualcosa che già abbiamo e non qualcosa da conquistare con l’applicazione, lo studio e la virtù.

  Coordinamento 15 Ottobre. d S   9   2 3 0 l 9 e g a   a i u 1 h g 0 l l 1 e o 2 m r 7 g : 3 0   f o    ·  Oggi è un giorno importantissimo...