Sunday, June 3, 2018

L’ignoranza della sinistra radical chic sul populismo


Negli ambienti di sinistra radical chic è ormai di moda parlare di populismo con riferimento al neonato governo Lega-5 stelle e con riferimento alla vittoria americana di Donald Trump. Ma che cosa intendono per populismo?

Il termine “populismo” non ha un significato univoco ed è spesso usato in maniera polemica e offensiva. In generale, si riferisce ad un movimento politico che ottiene un forte consenso facendo leva su bisogni basilari della massa del popolo. Sotto questo profilo, il populismo nasce di sinistra. Nasce nella Russia che si prepara alla rivoluzione Bolscevica e prospera in tutti i sistemi socialisti e comunisti che promettono di liberare i lavoratori oppressi dai padroni capitalisti. La demagogia di fondo del populismo di sinistra è la lotta di classe, con la promessa di lavorare di meno e guadagnare di più.

Un aspetto interessantissimo del populismo di sinistra (che, ripeto, è il padre storico di ogni populismo) è che non porta tendenzialmente alla democrazia ma alla dittatura illuminata. L’intellettuale di sinistra purosangue, sulla scia degli aspetti più fanatici del pensiero di Jean-Jacques Rousseau, si considera oracolo della volontà del popolo anche contro quello che il popolo stesso manifestamente dice di volere. Secondo Rousseau, la maggioranza non sa che cosa vuole. La volontà della maggioranza va veicolata e “interpretata” da intellettuali illuminati. Niente di strano che la Rivoluzione francese sia stata seguita da un forte periodo assolutista e che ogni regime comunista sia sfociato in dittature oppressive verso quello stesso popolo che si era sfruttato per arrivare al potere. Il populismo di sinistra non vuole cittadini liberi ma pecoroni da pascolare e (perché no?) da sfruttare.

Proviamo a guardare i fatti. La sinistra italiana si è da sempre nutrita della lotta sindacale. I sindacati sono sempre stati la forza di sfondamento dei partiti di sinistra. Lo sciopero ne è sempre stata l’arma demagogica per eccellenza. Quando io andavo al liceo (pubblico), ormai nel secolo scorso, c’erano puntualmente almeno due scioperi al mese promossi dai centri giovanili dei partiti di sinistra. Nessuno degli studenti liceali “militanti” capiva sul serio il perché di quegli scioperi, ma per il populismo di sinistra erano fondamentali. Erano il centro di addestramento della classe pecorona del futuro, quella manipolabile a fini elettorali. Il tema di fondo era sempre in qualche modo legato alla lotta contro qualche classe di potenti, spesso occulti e misteriosi.

Diciamolo però, questo genere di populismo faceva comodo a tutti i partiti. L’elettore manipolabile e poco accorto è l’ideale dell’utilitarismo politico. Perfino gli spiriti liberi dei radicali, per dirla così, partecipavano di nascosto alla spartizione della torta dopo le elezioni. Nessuno parlava. Nessuno accusava. Tutti mangiavano.

Fino allo scandalo tangentopoli (ingiustissimo, per molti versi), tutti i partiti politici italiani, nessuno escluso, si arricchiva a scapito del popolo pecorone che lo aveva votato. Il partito comunista, poi, era specializzato in finanza estera, ricevendo molti finanziamenti (e perfino armi) dall’Unione Sovietica. Sembra passato un secolo da quanto Baffino andava a fare i suoi periodi di formazione nella patria più feroce del comunismo.

Con una generalizzazione forse un tantino esagerata ma abbastanza adeguata, potremmo dire che tutti i partiti della prima repubblica hanno mangiato a spese del populismo pecorone. Tutti giocavano sulla doppia verità: da una parte, quella demagogica che spingeva il popolo a votarli, dall’altra quella dei giochi extra-parlamentari in cui ci si spartiva la torta tra amici. Il dopo tangentopoli non ha cambiato sostanzialmente le cose. Basti pensare al partito politico dell’eroe Di Pietro, le cui finanze e rimborsi elettorali erano nelle mani dell’Associazione di famiglia. Di Pietro è stato un maestro del populismo e del tornacontismo di sinistra. Nulla di nuovo sotto il sole.  

Ora, mi chiedo, perché, rispetto a questo passato per niente dignitoso della politica italiana, le elezioni recenti dovrebbero essere “populiste”? Forse perché il popolo non ha votato seguendo le vecchie demagogie? Nel bene e nel male, in questi ultimi anni è calato il sipario della vecchia politica. L’ultima chicca è stato il governo di sinistra di Renzi, che non è sbagliato definire il governo delle banche e dei poteri forti. La sinistra italiana, che da sempre ha fatto demagogia sfruttando i bisogni base della classe operaia, riesce finalmente ad andare al governo, e che fa? Fa precisamente quel governo che la massa operaia si sarebbe aspettata dai nemici capitalisti. E poi si lamentano che il popolo voti altri? Se fosse solo e unicamente pecorone non lo farebbe. Dovrebbero essere contenti.

Affrontiamo la realtà. Molti scandali sono venuti alla luce in questi anni. La gente ha esigenze che i politici di sinistra hanno ignorato. Il fatto che i voti si spostino è semmai segno di intelligenza. E che fanno gli intellettuali di sinistra invece di fare autocritica? Parlano di populismo. Che cosa ridicola. Sinceramente, non so se sia più l’ignoranza o l’arroganza a farli agire così. Forse, come sempre, c’è un po’ di entrambe le cose.

Almeno gli altri partiti hanno il buon gusto di non parlare di populismo quando vince la sinistra. Gli intellettuali di sinistra hanno però un diverso DNA. Non riescono a liberarsi dei cromosomi totalitaristi di Rousseau. Se il popolo non vota come vogliono loro è ignorante e va educato.

Io non difendo gli ultimi risultati elettorali. Chi mi conosce lo sa bene. Spero che in futuro molti elettori cambino il loro voto. So anche che una buona percentuale di elettori voterà sempre sulla base della demagogia che meglio riuscirà a toccare le sue corde. Una parte del popolo vota sempre da pecorone. Lo sanno tutti i partiti e tutti ne approfittano, specialmente quelli di sinistra (per competenza professionale storica e per struttura genetica). È ridicolo attaccarsi a vicenda su questo. I 5 stelle hanno fatto molta demagogia. La Lega ha fatto molta demagogia. Bene, e allora? L’aveva fatta prima anche il PD e poi non ha convinto con il suo governo. L’ha fatta in campagna elettorale e ha sbagliato a interpretare e centrare i veri interessi del popolo di oggi.

Ripeto, io non difendo gli ultimi risultati elettorali, ma non mi è difficile riconoscere che rispecchiano alcune esigenze di base che la sinistra ha ripetutamente ignorato e perfino deriso. Ad esempio, la gente ha bisogno di sicurezza e di certezza della pena. Gli immigrati spaventano per molti motivi: terrorismo, stupri, tasso di criminalità... È inutile dire che gli italiani sono razzisti o egoisti. Se la sinistra continua a dirlo allora merita di perdere le elezioni. Altro esempio: la gente si è resa conto di quanto abbia mangiato in passato la classe politica con la connivenza dei poteri finanziari. Se si ignora la grossa spinta di oggi verso la trasparenza, l’equità sociale e l’onestà si merita di perdere le elezioni. Ancora: l’Europa sfrutta l’Italia in molti modi, a partire dalla questione migranti. Inutile negarlo. La cosa giusta è fare proposte. Chi le fa in modo più convincente, e perfino sfruttando un po’ di arte demagogica, vince meritatamente le elezioni.

I partiti hanno cercato di interpretare le esigenze del popolo e hanno fatto le loro campagne elettorali giocando tutte le loro carte, incluse quelle demagogiche. Alcuni hanno vinto, alcuni hanno perso. Che i secondi se ne facciano una ragione o continueranno a perdere.

Chi oggi parla di populismo manifesta tutta la propria inettitudine politica, la propria ignoranza e la propria arroganza. È molto divertente però. Egoisticamente parlando, dovrei sperare che questi pseudo intellettuali radical chic continuino a farlo perché guardarli e ascoltarli è meglio del varietà.

Monday, May 28, 2018

Impeachment?


Visti i corsi e ricorsi di questo tema in questi giorni, riformulo qui un commento che avevo scritto l’altro giorno nella bacheca di un amico sui social.

Rispetto all’operato di Mattarella, molte persone tendono per adesso ad assolutizzare un solo articolo della Costituzione – il 92 (“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri”) – come se da quell'articolo dipendesse tutta la verità che c'è da conoscere sulla questione della formazione del Governo. Questo è un errore perché i poteri del Presidente e il valore degli organi costituzionali non dipendono solo dalla forma di quell'articolo. Quando si lavora con le leggi e con la Costituzione (che è la legge più alta del nostro sistema) bisogna sempre utilizzare anche i parametri dell’interpretazione “sistematica”, che consente di interpretare correttamente i singoli articoli come parte di un tutto organico.

Anzitutto, bisogna considerare chi ha il potere ultimo nel nostro ordinamento. Il riferimento primario è naturalmente l’articolo 1:

«La sovranità appartiene al popolo».

In secondo luogo, bisogna considerare chi è il datore di lavoro del Governo. Il riferimento ovvio è qui l’articolo 94:

«Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere»

Questo articolo fonda il cosiddetto rapporto di indirizzo politico che lega il Governo come esecutore al Parlamento come decisore. In altri termini, il Governo è come l’Amministratore delegato di una società che appartiene a certe persone (il Popolo). Chiaramente, l’amministratore deve amministrare in funzione della volontà del proprietario dell’azienda. In questo senso, se manca il rapporto di fiducia sull’indirizzo da dara all’azienda, l’amministratore non può amministrare. L’indirizzo politico dello stato deve darlo il Parlamento in funzione del mandato elettorale. Pertanto, il Governo è legittimato ad operare solo quando ha la fiducia del Parlamento.

In terzo luogo, bisogna considerare anche che sono le Camere ad eleggere lo stesso Presidente della Repubblica, proprio perché non c'è potere più alto in Italia di quello che è espressione del popolo sovrano.

Per fare un esempio analogico di cui c’è un riferimento esplicito nella Costituzione, si pensi al rapporto tra l’articolo 73 e l’articolo 74. Il primo attribuisce al Presidente il potere di promulgare le leggi. Questo significa che a lui spetta l’atto formale finale che rende le leggi efficaci nel nostro ordinamento.

«Le leggi sono promulgate dal Presidente della Repubblica entro un mese dalla approvazione».

Il secondo attribuisce allo stesso Presidente il potere di rimandare una legge al Parlamento:

«Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata».

Il Presidente ha quindi il potere formale di promulgare le leggi, così come ha il potere formale di nominare il Presidente del Consiglio e i ministri, ma in caso di contrasto col Parlamento il Presidente è l'organo che deve fare un passo indietro.

Il concetto di fondo è che se le Camere sono fermamente decise a fare qualcosa alla fine il potere più alto nel nostro ordinamento spetta a loro. Il Presidente è un arbitro neutrale. Può aiutare i giocatori a giocare meglio ma non può sostituirsi a loro.

Torniamo alla formazione del Governo. Se le Camere vogliono fermamente un certo Governo perché ritengono che sia quello adatto a perseguire la loro linea politica, e considerato che il Governo esiste ed opera solo se ha la fiducia delle Camere, il Presidente non può opporsi indefinitamente a quel Governo. Può esercitare un suo potere di consiglio, ma alla fine deve cedere o il Paese rimarrà privato della sovranità del Popolo espressa tramite i rappresentanti eletti.

Facciamo un caso per assurdo. 1) Mattarella si è rifiutato di nominare i ministri che avrebbero avuto la fiducia del Parlamento, perché la maggioranza per il voto di fiducia era già garantita dai due partici che avevano vinto le elezioni. 2) Si torna a votare e stravince, con premio di maggioranza, un analogo assetto democratico con Salvini candidato Premier. 3) A questo punto, Mattarella non potrà che affidare l’incarico a Salvini perché il Parlamento rifiuterebbe qualsiasi altro Premier incaricato, e non potrà che nominare i ministri scelti da Salvini e dai suoi alleati. Se non facesse così, se si rifiutasse di nominare perfino il Presidente del Consiglio espressione del premio di maggioranza, ci sarebbero certamente i presupposti per metterlo in stato di accusa per attentato alla costituzione perché starebbe reiteratamente cercando di impedire al Popolo di esercitare la propria sovranità tramite il Parlamento. Nell’esempio analogico di sopra, sarebbe come se rifiutasse nuovamente di promulgare una legge. Se Salvini e la sua coalizione scegliessero Savona, Mattarella non potrebbe che nominarlo.

Ripeto, qui bisogna capire chi è il padrone ultimo del sistema, e il padrone ultimo è il Popolo, il quale con le sue scelte elettorali sanziona in maniera definitiva qualunque organo costituzionale che non lo aggrada. Se adesso, tornando a votare, il Popolo farà stravincere l’assetto che Mattarella ha mortificato già due volte (la prima non affidando un incarico esplorativo né a Salvini né a Di Maio, la seconda rifiutandosi reiteratamente di nominare la squadra di governo che godeva della fiducia preventiva del Parlamento), il Popolo darà un’indicazione chiara direttamente al Presidente della Repubblica, ricordandogli chi comanda sul serio nel sistema. Se il Presidente decidesse di ignorarla attenterebbe direttamente alla sovranità del Popolo andando contro l’articolo 1 della Costituzione.

In realtà, la valutazione ultima delle scelte di Mattarella la si potrà esprimere solo alla luce delle prossime elezioni. Esse ci diranno se il Popolo si è adirato o meno per il suo operato. Ci diranno se il Popolo si è sentito tradito da un Presidente che, per ipotesi, ne ha negato e contraddetto la volontà politica. Se le prossime elezioni non daranno una maggioranza decisiva alle forze che sono state osteggiate da Mattarella nel lungo percorso di questa crisi, allora si potrà dire che Mattarella non ha sul serio contraddetto la volontà popolare. Se invece le prossime elezioni daranno questa maggioranza schiacciante a quelle forze politiche, allora potremo affermare con serenità di giudizio che Mattarella ha contraddetto reiteratamente la volontà del Popolo italiano.

Per queste ragioni, io non sono d’accordo che ci siano adesso i presupposti per una messa in stato di accusa. Si può dire che Mattarella abbia esagerato nel mettersi al di sopra della coalizione che disponeva della maggioranza parlamentare, ma non si può essere certi delle ripercussioni di ciò su una volontà popolare, come quella italiana, che è in genere molto volubile e distratta. Se però il Popolo risponderà alle prossime elezioni reagendo contro queste scelte di Mattarella, e se Mattarella si ostinasse a rifiutare la nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri indicati dalla coalizione vincente, allora credo che si maturerebbero i presupposti dell’impeachment.

D’altronde, riflettiamo. Chi deve vincere alla fine? Se, da una parte, un Parlamento con maggioranza forte e qualificata si rifiuta reiteratamente di dare la fiducia a persone scelte dal Presidente e, dall’altra, un Presidente si rifiuta reiteratamente di nominare il Premier e i ministri indicati da quel Parlamento, che si fa? Lo stato ha bisogno di un Governo, e la legittimazione ultima di quel Governo dipende dal Popolo. Qualcuno dovrà cedere e certamente quel qualcuno non può essere il Popolo.

Wednesday, May 9, 2018

Holy Father, there is still time to do the possible and the impossible to save Alfie


Let's briefly review the events. On February 20, 2018, the English court judge, Anthony Hayden, a well-known supporter of homosexual couples adopting children, authorized the doctors of Alder Hey Children’s Hospital in Liverpool to kill Alfie Evans, a two-year-old boy, detaching him from machinery that allows him to breathe and feed himself. It is a death sentence for suffocation and lack of water and food. Alfie is guilty of being a burden on society. Providing air and food to a health facility costs it. Why waste so many resources? Alfie has been in a semi-vegetative state for some time (perhaps because of the drugs given to him by doctors) and is suffering from a rare, unknown or undiagnosed disease. He no longer has a life worth living. His best interest, so doctors and the judge argue, is to be killed. The parents? Hayden believes they are not in a position to decide which child's best interest is. They would like to save him, keep him alive. For this reason, a legal guardian is appointed for Alfie. The expropriation of the child by the English authorities is complete. The parents cannot take their child to other hospital facilities or have other doctors assist him. They can only wait for the death sentence to be carried out by the hospital doctors.

Many people around the world are moved and frightened by the suffering of the parents and the fate of little Alfie as decreed by Judge Hayden, but justice must follow objective criteria. Just when feelings and emotions cloud the mind, it is up to the judges to ensure that they act according to the objectivity and the best interests of the parties. This in itself is right. Judges who, despite emotional pressure, act firmly according to justice should be praised. The most curious thing is that, given the membership of Alfie's family to the Catholic Church, Judge Hayden, stimulated in this sense by the doctors of the hospital themselves, decides to argue the justice of his decision based on Catholic doctrine. This is how this is explained, in an interview with Tempi.it, by the new president of the Pontifical Academy for Life appointed by the Pope, Monsignor Vincenzo Paglia:


“[it is] good to read the full text of the judge to understand the complexity and the delicacy of the clinical situation of Alfie. As well we must keep in mind - and seriously - the drama of what parents are experiencing. At the end of a wide and detailed medical analysis, the judge, considering that the parents are Catholics, decides to consider also the position of the Church. And then it refers to three texts, finding among them a complete coherence: the Catechism, the document on euthanasia of the Congregation for the Doctrine of the Faith of 1980, the speech of the Pope of 2017."

Paglia has no doubts and, at the precise request of the interviewer who urges him on the fact that Judge Hayden would therefore have decided the “killing” of Alfie by virtue of a Catholic reasoning that the Pope would also sign, answers:


“[…] to speak of “killing” is neither correct nor respectful. In fact, if the repeated medical consultations really showed the absence of a valid treatment in the situation in which the little patient finds himself, the decision taken did not intend to shorten the life, but to suspend a situation of therapeutic obstinacy. As the Catechism of the Catholic Church says, this is an option with which we do not intend to "procure death: we accept that we cannot prevent it" (CCC 2278).”

The words of Paglia raise a fuss. How does the new President of the Pontifical Academy for Life support the English judge on the interpretation of Alfie's case in terms of therapeutic obstinacy? Let’s read the whole point of the Catechism in question:

“2278 The interruption of burdensome, dangerous, extraordinary or disproportionate medical procedures with respect to the expected results can be legitimate; it is the renunciation of "therapeutic obstinacy." In this way we do not want to procure death: we accept that we cannot prevent it. The decisions must be made by the patient, if he has the competence and the ability, or, otherwise, by those who legally have the right, always respecting the reasonable will and the legitimate interests of the patient.”

The choice of words of the Catechism is crucial. Therapeutic obstinacy occurs when using "burdensome, dangerous, extraordinary or disproportionate" medical procedures that are not suitable for preventing death. In such cases, the decision to "pull the plug" does not mean "to bring about death" but is equivalent to the recognition by us creatures "that we cannot prevent it." There is no need to be a member of the Pontifical Academy for Life to understand how far this point of the Catechism is from the idea of ​​taking away from a child the air and food needed to live. There should be no need to dwell on this because the Catholic bioethics has always accepted it carefully and unanimously.

Some doubts have been raised in the past, even in the highest spheres. On July 11, 2005, S.E. Msgr. William S. Skylstad, the then President of the US Episcopal Conference, sent two questions about nourishment and hydration to the Congregation for the Doctrine of the Faith. We read these questions and their answers:

First question: Is the administration of food and water (whether by natural or artificial means) to a patient in a "vegetative state" morally obligatory except when they cannot be assimilated by the patient’s body or cannot be administered to the patient without causing significant physical discomfort?

Answer: Yes. The administration of food and water even by artificial means is, in principle, an ordinary and proportionate means of preserving life. It is therefore obligatory to the extent to which, and for as long as, it is shown to accomplish its proper finality, which is the hydration and nourishment of the patient. In this way suffering and death by starvation and dehydration are prevented.

Second question: When nutrition and hydration are being supplied by artificial means to a patient in a "permanent vegetative state", may they be discontinued when competent physicians judge with moral certainty that the patient will never recover consciousness?


Answer: No. A patient in a "permanent vegetative state" is a person with fundamental human dignity and must, therefore, receive ordinary and proportionate care which includes, in principle, the administration of water and food even by artificial means.

The Supreme Pontiff Benedict XVI, at the Audience granted to the undersigned Cardinal Prefect of the Congregation for the Doctrine of the Faith, approved these Responses, adopted in the Ordinary Session of the Congregation, and ordered their publication.

Rome, from the Offices of the Congregation for the Doctrine of the Faith, August 1, 2007.

William Cardinal Levada
Prefect

In the notes to these questions, the Congregation for the Doctrine of the Faith further specifies, in the words of John Paul II, that:

“The sick person in a vegetative state, awaiting recovery or a natural end, still has the right to basic health care (nutrition, hydration, cleanliness, warmth, etc.), and to the prevention of complications related to his confinement to bed… “The obligation to provide the ‘normal care due to the sick in such cases’ (Congregation for the Doctrine of the Faith, Declaration on Euthanasia, p. IV) includes, in fact, the use of nutrition and hydration (cf. Pontifical Council Cor UnumSome Ethical Questions Relating to the Gravely Ill and the Dying, no. 2, 4, 4; Pontifical Council for Pastoral Assistance to Health Care Workers, Charter for Health Care Workers, no. 120). The evaluation of probabilities, founded on waning hopes for recovery when the vegetative state is prolonged beyond a year, cannot ethically justify the cessation or interruption of minimal care for the patient, including nutrition and hydration. Death by starvation or dehydration is, in fact, the only possible outcome as a result of their withdrawal. In this sense it ends up becoming, if done knowingly and willingly, true and proper euthanasia by omission.”

These clarifications do not deal directly with the case of ventilation, but the rationale of the general indications provided by John Paul II on the "right to basic health care" is wide enough to include it. Ventilation does not serve to keep a dying patient alive, but only to allow him to receive oxygen. The patient who is subject to ventilation (but also to nourishment and hydration) may die from natural causes like anyone else, in the same way as a cardiopathic patient with a bypass or who follows a functional therapy to dilute his blood. Ventilation is therefore normally an ordinary and proportionate tool of basic health care due to each patient. On the other hand, Alfie's ventilation is not the most invasive. Now it is reduced to a small tube in the nose, and as the last hours show, after the first attempted murder, it is so little "extraordinary" that the baby has continued to breathe even without it. To clarify: all the tools of assistance, including the basic ordinary ones, can become therapeutic obstinacy if they are no longer able to reach their goal, such as nourishment in the case of feeding and oxygenation in the case of ventilation. None of these tools implies an absolute moral duty. Therefore, we must not interpret them in a formalistic manner. But if they are in objective conditions to reach their goal, then they cannot be interrupted. Removing oxygen, food or water from a patient does not mean allowing him to die from natural causes.

Moreover, with regard to the questions reported, Alfie is not in a permanent vegetative state, nor is he in a coma, and nor has he been in that little-diagnosed state of partial unconsciousness for more than a year. It is not even said that he is in a vegetative state. The doctors themselves who kidnapped him, preventing his parents from taking him to other hospitals and even preventing any other doctors from visiting him, talked about a semi-vegetative state. As I said, it is even possible that this state is the effect of the work of those who thought he would die shortly after the detachment of the respirator. Alfie’s survival of yesterday's attempted murder is a wake-up call to the validity of that “wide and complex medical analysis,” to put it in the words of Paglia, which was put by the judge at the base of his death sentence. Another alarm bell for the Catholic Church, in this case, should have immediately come from the activism of the judge in favor of homosexual adoptions, which is premised entirely on the radical separation of the “good of the child” from a natural family with a father and a mother. Those who are familiar with this subject must immediately question the suitability of an activist of this kind to determine what is in the best interest of Alfie, removing him from parental authority and condemning him to death. Ethics has its continuity. One cannot perfectly understand the best interest of the child in one case and completely misunderstand it in another.

The fact is that, faced with the judge’s demands to execute Alfie, and with his citations of the Pope and the doctrine of the Catholic Church, the ecclesiastical authorities, starting with the Pope, should have immediately voiced their opposition. It would not have taken much to realize that the case of Alfie has nothing to do with therapeutic obstinacy and to explain to faithful Catholics all over the world that the Church cannot tolerate euthanasia either by action or by omission. Given the current trend in England and other countries to legitimize euthanasia and eugenics with the pretext of aggressive treatment, the responsibility of the church's munus docendi should have immediately entered the high alert level.

Let's leave the responsibility of the munus docendi to one side, however, and focus on the case of Alfie. Judge Hayden is incompetent on Catholic doctrine and is manifestly unsuitable to judge Alfie's best interest but he is still a judge. If he has to change his mind, he needs objective arguments. You cannot say “Yes, look, you're right but, please, consider the pain of the parents and the solidarity of many people in the world.” A judge of conscience who believes he has decided well cannot and must not give in to requests of this kind. Judge Hayden needed to be told clearly and firmly that he misinterpreted both the Catholic doctrine and the concept of therapeutic obstinacy. Clarity and firmness on this point could also change the attitude of other British authorities and those slices of public opinion who do not understand why we should make so much fanfare for this child, whose best asset “officially” would consist in dying immediately by suffocation and dehydration. Perhaps a strong truthful position on the part of the Church could even bring Queen Elizabeth out of the total indifference she has shown up to now about the matter.

Clarifying the objective immorality of taking air, water and food away from Alfie by starting “procedures” meant to make him die should be the primary and solemn responsibility of the Church in such a case, not only with respect to the munus docendi in general, but also with respect to the concrete possibility of saving the life of this innocent child. Christian charity should leave the ninety-nine sheep on the mountain in this case and take care of this tiny helpless sheep. It should shout to the whole world that the child must not be touched and that it would be a terrible murder to make him die of asphyxiation or hunger and thirst.

The official Church, instead, the one that has the power to dialogue with the powerful of the world, has so far chosen the other path outlined by Paglia in that interview. She has decided to renounce her duty to inform Judge Hayden and the world about how the objective truths of Catholic morality apply to Alfie's case—and even to properly analyze how these truths apply to the case in the first place. The only concern of the President of the Pontifical Academy for Life, perhaps induced by the recent debate surrounding Amoris Laetitia, is to point out that every concrete case requires “discernment,” that moral questions cannot simply be tackled by gluing over abstract rules. Now, that the application and understanding of moral norms require prudence is an old and important truth that cannot justify renouncing one’s responsibilities. Paglia speaks as if we should have an inferiority complex towards the “complexity” of the judge's decision and the expertise of the English doctors, as if we should let them act as they deem best because they know more. If I had to think the worst, I would say that the goal, perhaps not fully aware, is also the consensus of this world, the desire to be appreciated.

I believe that only this approach by Paglia can shed light on the amazing output of the English bishops, who have anxiously sought, not to save the life of Alfie, but to defend the professionalism, honesty and the work of his executioners. The Vatican has moved with enormous delay compared to the good of Alfie, in the wake of the emotional wave of the pain of parents and the explosion of solidarity all over the world. The Pope has relied on this, which is precisely what the English authorities do not need. Rather, relying on feelings and desires, trying to rouse sympathy for the torment of parents, acts as a confirmation of the sentence of the judge and the consequential decisions. It is like telling the judge that there is nothing wrong about his reasoning and asking him to act based on emotions.


Let's reread the Pope's main messages:

“I entrust to your prayer persons such as Vincent Lambert in France, little Alfie Evans in England, and others in several countries who live, sometimes for a long time, in a state of grave illness, assisted medically for their primary needs. They are delicate situations, very painful and complex. Let us pray so that every sick person is always respected in his dignity and cared for in a way adapted to his condition, with the harmonious contribution of the family, of doctors and of other health workers, with great respect for life” (Regina Coeli, April 15).

“Moved by the prayers and immense solidarity shown little Alfie Evans, I renew my appeal that the suffering of his parents may be heard and that their desire to seek new forms of treatment may be granted(Tweet, April 23).

Apart from the generality of these messages, the most striking thing in the April 23 appeal, the main one from which a breakthrough was expected, is that there is no trace of the serious injustice perpetrated against Alfie. There are no references to the objective principles of morality. There is no truthful judgment that it is immoral to cause the death of that innocent child. The appeal is made in favor of the suffering of the parents and their desire: a useless and counterproductive appeal, I repeat, for a judge who (by hypothesis) is required to protect Alfie's best interests also against the feelings of the parents and against the people's pressures, potentially unjust and irrational.

The Pope has asked to do everything possible to save Alfie, and we have all witnessed the praiseworthy efforts of Mariella Enoc, President of Bambin Gesù in Rome. The “possible” and desirable thing that the Pope can do, however, after communicating empathy and emotions, is communicating the truth. He can say clearly and firmly to the whole world that therapeutic obstinacy has nothing to do with Alfie's case, that Catholic doctrine cannot be used in any way to legitimize the work of Judge Hayden, and that provoking Alfie's death is an infinite injustice and a very serious sin against God and against humanity. So far, the Pope has asked to save Alfie as a tribute to his parents' pain and desires. It's time to ask to save Alfie because Alfie is to be saved. There is the possibility that this clarity on moral objectivity, this appeal to justice rather than feelings, may in the next few days save this child or help save him. This appeal would also help the whole Church, which is a witness of truth, which has a primacy in the teaching of morals, and which cannot allow to surrender its munus to an English judge who has already demonstrated in many ways his incompetence and hardness of heart.

Sunday, April 29, 2018

Caso Eluana: Non giudicare?

Ripropongo la mia introduzione ad un volume della rivista "Questioni di Biotica" del 2009.


Il caso Englaro continua a fare notizia. Guai se non fosse così! Negli ultimi tempi, tutti siamo stati chiamati a pronunciarci su di esso, chi come semplice cittadino in dialogo con la sua coscienza, chi nella sua qualità di studioso, di giornalista, di docente o di intellettuale in dialogo con i suoi lettori e studenti. Quando, con la redazione, abbiamo discusso dell’editoriale di questo numero della rivista, non ci sono stati dubbi. Scelta tematica facile! Difficile il taglio! Come tanti, in tante lezioni e convegni, anch’io ho approfondito specificamente di volta in volta singoli aspetti del caso: dal conflitto giuridico istituzionale, al tipo di legge che bisognerebbe promulgare, al confine medico tra terapia e accanimento terapeutico, alla questione etico antropologica sull’identità della persona e il rispetto che le è dovuto, ecc. Nessun aspetto così specifico, tuttavia, sembrava adatto a questo editoriale, soprattutto in giorni in cui gli interventi pubblici degli studiosi e degli addetti ai lavori si moltiplicano sempre di più (alcuni anche per disattenzione e fuga di notizie).

In questo caso, bisogna concentrarsi piuttosto su alcuni aspetti di fondo che devono necessariamente colpire di più chiunque di noi si guardi intorno, magari un po’ sconsolato e sfiduciato, cercando di capire che cosa ci stia succedendo. La prima cosa che appare, allora è un certo imborghesimento e tiepidezza del bene morale che circonda l’approccio culturale più diffuso alla questione: una sorta di nichilismo etico che diventa paradigma culturale e valore guida, una disillusione sulla verità che si trasforma in rifiuto di giudicare e in giudizio di assoluzione per chiunque, qualunque cosa faccia. Ci si è detto che nessuno ha il monopolio di che cosa significhino dolore e amore e che, pertanto, bisognerebbe lasciare in pace il padre di Eluana e… “fare silenzio”. Quest’idea, lo confesso, mi lascia profondamente inquieto.

Giovanni Paolo II, al principio dell’enciclica Evangelium Vitae (documento di estrema attualità e forza intellettuale), e di fronte al prospetto di tanti delitti perpetrati oggi contro la vita umana, scrive che «se è quanto mai grave e inquietante il fenomeno dell’eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza, quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso fondamentale valore della vita umana» (n. 4).

Non è forse questo che sta dietro gli appelli al silenzio e al non giudicare? Una cultura che non si cura più della distinzione tra bene e male, e che per ciò si rifiuta diffusamente di leggere e di interpretare l’amore e il dolore in relazione ai gesti e alle azioni concrete che li veicolano e li rendono presenti? Quando parlo di dolore mi riferisco, naturalmente, al dolore che nasce dall’amore generoso e disinteressato, e che merita pertanto rispetto e attenzione morale. Sì, perché il dolore in sé lo provano tutti: i buoni e i cattivi. L’avaro prova dolore quando non ha le sue ricchezze, lo stupratore quando non può abusare della sua vittima, il criminale quando è chiuso in carcere, l’egoista quando si deve sacrificare per gli altri, il peccatore quando si parla pubblicamente dei sui peccati. Il dolore, come tale, non merita alcun rispetto! Quello che merita rispetto (e venerazione!) è il dolore di chi non si stanca mai di accudire gli altri, di sacrificarsi per loro e di sperare. Come non leggere l’autenticità dell’amore nelle azioni delle suore che si sono prese cura di Eluana per così tanti anni? E come non avere qualche dubbio sul significato del vero amore di fronte a un genitore che, fin da subito (prima ancora che si potesse parlare di stato vegetativo, persistente o quant’altro), ha chiesto che si “staccasse la spina!”, e che per diciassette anni si è semplicemente battuto per questo: non per accudire, assistere, sperare, amare… ma per farla finita?

Certo, in morale esistono il giudizio oggettivo sulle azioni, da una parte, e il giudizio sulla responsabilità soggettiva, dall’altra. È perfettamente possibile che qualcuno compia un atto cattivo (perfino uccidere un’altra persona) pensando di fare una cosa buona. In questi casi, finanche il diritto offre possibilità di impunità o di sconti sulla pena. Questo però non inficia e non può bloccare il giudizio etico sull’oggettività e il significato oggettivo degli atti. Le due cose non si possono confondere. E nessuno può pretendere che non si giudichino per quello che sono. Io non ho elementi, naturalmente, per giudicare la coscienza e la responsabilità soggettiva di Beppino Englaro. Ma l’idea che non si possano giudicare i suoi gesti oggettivi di questi anni mi inquieta, e mi sembra una violenza ingiustificabile contro la mia coscienza e contro quella di tante altre persone. Nell’analisi degli atti concreti, inoltre, l’impegno politico di Beppino e la sua combutta con diverse associazioni radicali e pro eutanasia giocano certamente in suo sfavore. D’altronde, lo stesso Maurizio Mori (con prefazione di Beppino) scrive che Eluana è il simbolo di una lotta culturale per dimostrare che la vita umana non è sacra. Lotta per un simbolo, dunque, non per il bene di una figlia (la cui vita non è sacra!). Così, almeno, a me appare.

L’inquietudine cresce quando si cercano paragoni di coerenza. Se si ammettesse, per esempio, il principio soggettivistico che nessuno ha diritto di giudicare quello che gli altri reputino (o conclamino come) amore e dolore legittimo, che strumenti resterebbero per contrariare, ad esempio, la pedofilia quando (com’è successo di recente col partito pedofilo) essa si propone come forma legittima di amore per i bambini e come legame positivo di amore e di crescita reciproca tra le generazioni? Per chi ha provato a leggere le argomentazioni di questi pedofili “istruiti”, non è affatto difficile fare il due più due. Essi affermano che sarebbe un dolore illegittimo separare loro dai loro giovinetti. Per chi ha visto quel bellissimo film dal titolo “Quel che resta del giorno”, non è difficile immaginare che un approccio sbagliato alla letteratura sulla razza ebrea ai tempi del nazismo abbia potuto portare alcuni studiosi a pensare che gli ebrei avevano effettivamente una dignità umana inferiore e che potevano essere sacrificati per il miglioramento hegeliano (una più alta sintesi) dell’umano nella storia. E che dire di casi di incesto in cui padre e figlia piccola dichiarassero di amarsi profondamente e di non poter fare a meno sessualmente l’uno dell’altra? Come giudicare questo amore e questo dolore se l’unica cosa che ci rimane è il principio che nessuno ha il monopolio dell’amore e del dolore e che… bisogna fare silenzio?

Come credente, devo dire che l’inquietudine di questi giorni mi richiama alla mente quel passo del Vangelo sugli ultimi tempi, in cui Gesù dice che se essi non verranno abbreviati neppure i giusti si salveranno. Sarà la deformazione professionale, ma io intendo sempre quel passo più o meno nel senso implicato dalla frase di Giovanni Paolo II citata poc’anzi. In fondo, qual è la tentazione più grande per i giusti, quella fisica di stelle che cadono dal cielo, o quella etica e intellettuale di un ambiente culturale così ostile da far perdere credibilità ai princìpi tradizionali della morale? Per me, questa è la vera tentazione e il vero segno degli ultimi tempi. Ma torniamo alla semplice (e sola, troppo spesso abbandonata) ragione.

C’è un altro aspetto che fa da sfondo al dibattito sul caso Eluana e che lascia turbati. È un aspetto che riguarda la violenza: una violenza che si sostituisce alla giustizia e al bene morale. È proprio l’ambiente culturale nichilista, quell’ambiente che porta al non giudicare e al giustificare tutti, che porta anche con sé una schiacciante vittoria teorica e pratica della violenza sulla giustizia. L’idea è che, non essendoci una verità di riferimento per giudicare le situazioni in maniera oggettiva (indipendentemente, cioè, dai desideri dei soggetti coinvolti), resta che le nostre regole pubbliche e i nostri princìpi giuridici (anche i più necessari all’ordine sociale) sono solo espressione di un paradigma culturale prevalente in una certa società in un certo momento storico, e quindi sono solo violenza che impone con la forza pubblica le proprie idee alle minoranze. Oggi sono tutti bravissimi e prontissimi a incentrare i loro discorsi sui paradigmi culturali e le analisi sociali: questo perché, dove non c’è più il pensiero veritativo, la sociologia a la statistica si sostituiscono alla filosofia. La giustizia, però, non può essere separata dalla verità. Non si può dire: «È giusto che tu faccia questo perché noi siamo di più e lo vogliamo», o «perché molti, quasi tutti, fanno così». Questo discorso sofistico ha giustificato nella storia il razzismo e tante altre barbarie culturali. La giustizia ha sì bisogno della maggioranza culturale e politica per essere giuridicamente rispettata, ma ha anche bisogno di una giustificazione basata sulla verità dell’atto che si reputi giusto o ingiusto. Chi non capisce questo è già pronto per l’ennesima violenza storica contro i deboli e le minoranze. La verità e la giustizia “giudicano” per definizione, e agiscono sulla base dei loro giudizi.

Ma qui la (triste) verità è un’altra. È che a nessuno, sul serio, importa più della vita e dell’esistenza di chi non risponde agli standard di benessere, salute e piacere della nostra società mediatica. Se muore una procace valletta televisiva la gente piange e si dispera, se si tratta di un disabile, invece, di un anziano o di un malato grave (magari in coma) c’è una certa indifferenza, addirittura sollievo. È paradossale che la crisi del pensiero veritativo vada così perfettamente a braccetto con questa certezza culturale assoluta su che cos’è che rende la vita degna di esistere. Nella cultura oggi predominante, insieme al pensiero oggettivo, sono spariti il mistero e la sacralità. Ma chi può dire che una vita è più degna di un’altra? Chi può permettersi di esprimere un tale giudizio? La ragione dell’uomo contemporaneo si prende in giro facilmente, giudicando in base a una fede religiosa nuova secondo cui i corpi muscolosi e procaci determinano il grado di dignità dell’esistenza umana. Ma la ragione vera dovrebbe ribellarsi, e inchinarsi di fronte al mistero di molte vite “inutili” e “deboli” la cui esistenza lascia dietro di sé una tale scia di amore e di pienezza che, al confronto, l’intero mercato televisivo potrebbe sprofondare in un baratro senza quasi essere notato.

Ed ecco un altro paradosso: che la sacralità della vita è l’unica difesa autentica della democrazia e di quel principio di autonomia di cui gli illuministi contemporanei fanno un così gran parlare. Certo, essi non lo dicono, ma la loro è l’autonomia di chi è forte e procace, o magari bianco e di sesso maschile: sì, insomma, di chi è così fortunato da essere il soggetto forte secondo i paradigmi culturali del momento. È sconcertante la disinvoltura di chi ha messo a morte Eluana nonostante non ci sia mai stata una manifestazione di volontà chiara, espressa e certa da parte della fanciulla. Qui i giocatori scoprono le loro carte. Non importano i diritti dell’uomo, l’autonomia, la non discriminazione degli esseri umani prevista dall’articolo 3 della Costituzione: Eluana, le altre vite umane che capitano a puntino, non sono sacre, e sono strumentalizzabili e sacrificabili alle lotte politiche che i sedicenti difensori della (propria) autonomia decidano volta per volta di combattere. Altro che ragione contro la fede. Qui non ci sono più né l’una né l’altra: c’è solo il cinismo di una cultura utilitarista e disillusa in cui i più forti la fanno da padroni.

Alcune lettere e interventi pubblici di questi giorni confermano una mancanza di interesse per l’esistenza umana che è ormai per molti un filtro culturale attraverso cui si guarda la società. Dietro l’apparente cura per la libertà, si nasconde in realtà un nichilismo disilluso, una indifferenza per la vita e per l’uomo, la cui esistenza e il cui destino non hanno ormai un valore assoluto, men che meno soprannaturale. Che la morte assurda di Eluana ci aiuti! Che la sua vita “inutile” lasci traccia nei nostri cuori e li illumini sul mistero della dignità e sacralità dell’esistenza umana!


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Questo primo numero cartaceo della nostra rivista si apre con un intervento di Robert Spaemann su Habermas e la bioetica che Giovanni Magrì ha specificamente tradotto per noi dal tedesco. Seguono due articoli che Carmelo Vigna ed Eugenio Lecaldano hanno preparato in occasione di uno dei convegni palermitani promossi dalla redazione di Questioni di Bioetica e che, come sanno bene i nostri lettori, si ispirano ai princìpi di un sano pluralismo in cui autori di primo piano del dibattito pubblico esprimo in libertà le proprie idee, anche quando tra loro contrapposte, o contrarie alla linea editoriale della rivista. I testi di Vigna e Lecaldano, in particolare, riprendono da angolature diverse il tema dei manifesti di bioetica che diversi intellettuali italiani hanno firmato e proposto all’attenzione pubblica nel 2007. Vigna, firmatario del manifesto “Una ragione pubblica per la bioetica” è in polemica soprattutto con Francesco D’Agostino, firmatario del “Manifesto per una bioetica critica”; mentre Lecaldano difende il “Nuovo manifesto di bioetica laica”, firmato anzitutto da Maurizio Mori. Naturalmente, sono diversi gli interventi in questo numero che toccano il caso di Eluana: soprattutto, gli articoli di Marianna Gensabella Furnari, “Lasciar morire? Gli interrogativi etici aperti dalla sospensione di idratazione e alimentazione in pazienti da anni in stati vegetativi”, e di Luciano Sesta, “Quando la coscienza dorme. Un contributo al dibattito sul caso Englaro”; ma anche le note di Salvino Leone, Giorgio Palumbo e Giuseppe Savagnone, il quale si concentra anche sul dramma della vita dei clandestini. La nota di Francesco Ferrara riguarda, invece, il problema etico delle cellule staminali embrionali. Seguono, come sempre, la Rassegna Stampa, le Recensioni e le Novità Bibliografiche. Questa versione cartacea è una grande nuova avventura in cui speriamo vivamente che i lettori ci accompagnino e ci aiutino con il loro gradimento e sostegno.

Thursday, April 26, 2018

I vescovi inglesi come Caifa!


Gli amici de La Nuova Bussola Quotidiana ci informano oggi che l’arcivescovo di Liverpool, Malcom McMahon, ha negato l’assistenza spirituale ad Alfie e ai suoi genitori cacciando via dall’ospedale degli orrori (l’Alder Hay Children Hospital) padre Gabriele Brusco, che si era recato lì dall’Italia vista l’indisponibilità in tal senso del vescovo e di qualsiasi sacerdote inglese. Per i dettagli di questa triste e deprecabile vicenda rinvio all’articolo di Riccardo Cascioli sulla Bussola.

Con questa mossa sorprendente, l’arcivescovo di Liverpool si allinea ai vescovi inglesi, impegnati ufficialmente, non a salvare Alfie e ad offrire conforto ai suoi genitori, ma a difendere l’operato dei giudici e dei medici inglesi. Come i suoi colleghi vescovi, anche lui è attualmente colpevole di complicità in tentato omicidio. Questo va detto molto chiaro. Le leggi inglesi magari non puniranno tutta questa gentaglia, ma moralmente le cose stanno così. I vescovi inglesi sono criminali in quanto complici di chi sta illegittimamente tentando di uccidere Alfie, e potrebbero infine diventare assassini in quanto complici nell’omicidio di Alfie. Questa condotta criminale è enormemente aggravata dallo scandalo pubblico che essi recano sia a tutti gli uomini sia, più in particolare, ai cattolici verso cui posseggono una responsabilità di pastori. Se non in questa vita, verranno adeguatamente puniti nella prossima.

Che differenza con i vescovi americani, che hanno ieri twittato il seguente messaggio:

«Esortiamo tutti i cattolici a unirsi al Santo Padre nel pregare per #AlfieEvans e la sua famiglia e affinché il loro desiderio di cercare nuove forme di cura possa essere esaudito. Possa la dignità della vita di Alfie e della vita umana in generale, specialmente di chi è più vulnerabile, essere rispettata e sostenuta» (traduzione mia).

Questo appello dei vescovi americani pone l’accento sulla dignità della vita di Alfie, mostrando piena consapevolezza del fatto che qui in gioco, prima ancora che mera compassione per l’agonia dei genitori, c’è la vita di un bambino innocente, e che questa vita è un grido che la Chiesa non può ignorare. Al contrario dei messaggi ambigui che in questo periodo sono giunti perfino dal Vaticano (per questo rimando ai miei commenti qui), i vescovi americani ci ricordano che la Chiesa Cattolica è ancora viva e vegeta e che se la brezza dello Spirito Santo viene ostacolata in Europa soffierà ancora più forte da oltre oceano.

I vescovi inglesi, però, stanno facendo molto peggio che macchiarsi di quei crimini ai danni di Alfie. Lo scandalo che stanno dando è ancora più grande.

Emerge già dall’articolo che ho riportato di Cascioli che la preoccupazione primaria dell’arcivescovo di Liverpool nel cacciare padre Brusco era legata al fatto che padre Brusco richiamava il personale dell’ospedale – incaricato di attuare la procedura omicida ai danni di Alfie – al «diritto-dovere dell’obiezione di coscienza». In un post su Facebook di qualche ora fa, l’amico Massimo Introvigne interpreta l’atteggiamento dell’indegno arcivescovo, non in senso «ideologico» rispetto al caso di Alfie, ma come la risultante di due fattori: 1) del «tipico sentimento britannico di difendere il loro sistema sanitario quando è sotto attacco», e 2) del fatto che «tengono famiglia, nel senso che ci sono già iniziative per cacciare i cappellani cattolici dagli ospedali inglesi se criticano l’aborto o il gender, e tenersi buoni gli ospedali sembra una priorità».

In sostanza, i vescovi britannici 1) si sentono, almeno in parte, più britannici che cattolici e 2) sono disposti, pur di tenersi buoni gli ospedali, a sacrificare Alfie. I vescovi inglesi hanno dimenticato che il Cattolicesimo si fonda, non sulla paura dell’autorità, ma sulla persecuzione subita Da Cristo e dai suoi discepoli.

«Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. Ricordatevi della parola che vi ho detto: Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra» (Gv, 15,18-20). 

Se per testimoniare la verità di Cristo i sacerdoti inglesi dovranno essere cacciati dagli ospedali, ben venga che siano cacciati. È solo accettando la persecuzione di Cristo che parteciperanno della sua verità. Quel passo del Vangelo è cristallino: la promessa «osserveranno anche la vostra» segue alla promessa «perseguiteranno anche voi». Diventando complici dei giudici e dei medici inglesi per paura della persecuzione, l’unica parola che faranno ascoltare al mondo sarà la parola di morte dei carnefici inglesi.

L’atteggiamento di questi vescovi ha un precedente autorevole, nel senso che è l’atteggiamento dell’autorità che mise a morte Gesù:

«È meglio che un uomo solo muoia per il popolo» (Gv 18,14).

Che triste parabola quella di questi vescovi, nati per proclamare la buona novella di Gesù Cristo e ridotti a tornare a metterlo a morte nei panni di Alfie Evans. E quanto più grande sarà la loro condanna quando si troveranno ad essere giudicati da quello stesso giudice che fu messo a morte da Caifa e dagli altri sommi sacerdoti.

Santo Padre, c’è ancora tempo per fare il possibile e l’impossibile per salvare Alfie


Ripercorriamo brevemente gli eventi. Il 20 febbraio 2018, il giudice dell’alta corte inglese, Anthony Hayden, noto sostenitore delle adozioni di bambini da parte delle coppie omosessuali, autorizza i medici dell’Alder Hay Children Hospital di Liverpool ad uccidere Alfie Evans, un bimbo di due anni, distaccandolo dai macchinari che gli consentono di respirare e di nutrirsi. È una condanna a morte per soffocamento e per mancanza di acqua e di cibo. Alfie è colpevole di essere un peso per la società. Fornirgli aria e cibo assistendolo in una struttura sanitaria costa. Perché sprecare tante risorse? Alfie è ormai in stato di semi incoscienza da tempo (forse per via degli stessi farmaci somministratigli dai medici) ed è affetto da una malattia rara sconosciuta o ancora non diagnosticata. Non ha più una vita degna di essere vissuta. Il suo miglior interesse, così argomentano i medici e il giudice, è di essere ucciso in quel modo. I genitori? Hayden ritiene che non siano in condizioni di decidere quale sia il miglior bene del figlio. Loro vorrebbero salvarlo, tenerlo in vita. Per tale motivo, viene nominato per Alfie un custode legale. L’esproprio del figlio da parte delle autorità inglesi è completo. I genitori non possono portare il figlio in altre strutture ospedaliere o farlo assistere da altri medici. Possono solo aspettare che la sentenza di morte venga eseguita dai medici dell’ospedale.

Moltissime persone in tutto il mondo sono commosse e affrante per la sofferenza dei genitori e per il destino del piccolo decretato dal giudice Heyden ma la giustizia deve seguire criteri oggettivi. Proprio quando i sentimenti e le emozioni offuscano la mente, è compito dei giudici far sì che si agisca secondo l’oggettività e il miglior interesse delle parti. Questo in sé è giusto. I giudici che, nonostante le pressioni emotive, agiscono con fermezza secondo giustizia vanno lodati.

La cosa più curiosa è che, vista l’appartenenza della famiglia di Alfie alla Chiesa Cattolica, il giudice Hayden, stimolato in tal senso dagli stessi medici dell’ospedale, decide di argomentare la giustizia della sua decisione basandola sulla dottrina cattolica. Così ce lo spiega, in un’intervista rilasciata a Tempi.it, il nuovo presidente della Pontificia Accademia per la Vita nominato dal Papa, Monsignor Vincenzo Paglia:

«[è] bene leggere il testo del giudice per intero per comprendere la complessità e la delicatezza della situazione clinica di Alfie. Come pure si deve tener presente – e con serietà – la drammaticità di quello che i genitori stanno vivendo. Alla fine di un’ampia e articolata analisi medica, il giudice, considerando che i genitori sono cattolici, decide di prendere in esame anche la posizione della Chiesa. E si riferisce allora a tre testi, riscontrando tra di essi una completa coerenza: il Catechismo, il documento sull’eutanasia della Congregazione per la Dottrina della Fede del 1980, il discorso del Papa del 2017».

Paglia non ha dubbi e, alla domanda precisa dell’intervistatore che lo sollecita sul fatto che il giudice Hayden avrebbe quindi deciso la “soppressione” di Alfie in virtù di un ragionamento cattolico che anche il Papa sottoscriverebbe, risponde:

«[…] parlare di “soppressione” non è né corretto né rispettoso. Infatti se veramente le ripetute consultazioni mediche hanno mostrato l’inesistenza di un trattamento valido nella situazione in cui il piccolo paziente si trova, la decisione presa non intendeva accorciare la vita, ma sospendere una situazione di accanimento terapeutico. Come dice il Catechismo della Chiesa cattolica si tratta cioè di una opzione con cui non si intende «procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (CCC 2278)».


Le parole di Paglia sollevano un polverone. Come fa il nuovo Presidente della Pontificia Accademia per la Vita ad assecondare il giudice inglese sull’interpretazione del caso di Alfie in termini di accanimento terapeutico? Leggiamo l’intero punto del Catechismo in questione:

«2278 L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'«accanimento terapeutico». Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».


La scelta di parole del Catechismo è cruciale. L’accanimento terapeutico si ha quando si utilizzano procedure mediche «onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate» non idonee ad impedire la morte. In tali casi, la decisione di “staccare la spina” non intende «procurare la morte» ma equivale al riconoscimento da parte di noi creature «di non poterla impedire». Non c’è bisogno di essere membri della Pontificia Accademia per la Vita per capire quanto sia lontano questo punto del Catechismo dall’idea di togliere ad un bambino l’aria e il cibo necessari a vivere. Su questo non dovrebbe esserci bisogno di soffermarsi perché la bioetica cattolica lo ha sempre accettato accuratamente e unanimemente.

Qualche dubbio in passato c’è stato, perfino nelle più alte sfere. L’11 luglio del 2005, S.E. Mons. William S. Skylstad, l’allora Presidente della Conferenza Episcopale statunitense, inviò due quesiti a proposito di nutrimento e idratazione alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Leggiamo questi quesiti e le relative risposte:

Primo quesito: È moralmente obbligatoria la somministrazione di cibo e acqua (per vie naturali oppure artificiali) al paziente in “stato vegetativo”, a meno che questi alimenti non possano essere assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico?
Risposta: Sì. La somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente. In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione.
Secondo quesito: Se il nutrimento e l’idratazione vengono forniti per vie artificiali a un paziente in “stato vegetativo permanente”, possono essere interrotti quando medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza?
Risposta: No. Un paziente in “stato vegetativo permanente” è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel corso dell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Risposte, decise nella Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato la pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 1° agosto 2007.
William Cardinale Levada
Prefetto

Nelle note di commento a questi quesiti, la Congregazione per la Dottrina della Fede specifica ulteriormente, con parole di Giovanni Paolo II, che:

«L’ammalato in stato vegetativo, in attesa del recupero o della fine naturale, ha dunque diritto ad una assistenza sanitaria di base (nutrizione, idratazione, igiene, riscaldamento, ecc.) […] L’obbligo di non far mancare “le cure normali dovute all’ammalato in simili casi” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia, parte IV) comprende, infatti, anche l’impiego dell’alimentazione e idratazione (cf. Pontificio Consiglio Cor UnumQuestioni etiche relative ai malati gravi e ai morenti, n. 2.4.4; Pontificio Consiglio per la pastorale degli Operatori Sanitari, Carta degli Operatori Sanitari, n. 120). La valutazione delle probabilità, fondata sulle scarse speranze di recupero quando lo stato vegetativo si prolunga oltre un anno, non può giustificare eticamente l’abbandono o l’interruzione delle cure minimali al paziente, comprese alimentazione ed idratazione. La morte per fame e per sete, infatti, è l’unico risultato possibile in seguito alla loro sospensione. In tal senso essa finisce per configurarsi, se consapevolmente e deliberatamente effettuata, come una vera e propria eutanasia per omissione».

Questi chiarimenti non affrontano direttamente il caso della ventilazione, ma la ratio delle indicazioni generali fornite da Giovanni Paolo II sul «diritto ad una assistenza sanitaria di base» è abbastanza ampia da includerla. La ventilazione non serve a tenere in vita a tutti i costi un paziente che sta morendo, ma soltanto a consentirgli di ricevere l’ossigeno. Il paziente soggetto a ventilazione (ma anche a nutrimento e idratazione) può morire per cause naturali come chiunque altro, allo stesso modo di un cardiopatico col bypass o che segua una terapia funzionale a diluire il sangue. La ventilazione è quindi normalmente uno strumento ordinario e proporzionato dell’assistenza sanitaria di base dovuta ad ogni paziente. D’altronde, la ventilazione di Alfie non è delle più invasive. Adesso si riduce ad un tubicino nel naso, e come dimostrano le ultime ore, dopo il primo tentato omicidio, è così poco «straordinaria» che il piccolo ha continuato a respirare anche senza. Per chiarirci: tutti gli strumenti di assistenza, inclusi quello ordinari di base, possono diventare accanimento terapeutico qualora non siano più in condizioni di raggiungere il loro fine, come il nutrimento nel caso della somministrazione di cibo e l’ossigenazione nel caso della ventilazione. Nessuno di questi strumenti implica un assoluto morale. Non bisogna quindi interpretarli in maniera formalistica. Se però sono in condizioni oggettive di farlo non si possono interrompere. Togliere l’ossigeno, il cibo o l’acqua a un paziente non significa consentirgli di morire per cause naturali.

Inoltre, con riguardo ai quesiti riportati, Alfie non è in stato vegetativo permanente, non è neppure in coma, e non è in quello stato di parziale incoscienza poco diagnosticato da più di un anno. Non è neppure detto che sia in stato vegetativo. I medici stessi che lo hanno rapito, impedendo ai genitori di portarlo in altri ospedali e a qualsiasi altro medico di visitarlo, hanno parlato di uno stato semi-vegetativo. Come dicevo, è addirittura possibile che il suo stato attuale sia l’effetto dell’operato di chi pensava che sarebbe morto poco dopo il distacco del respiratore. La sopravvivenza di Alfie al tentato omicidio di ieri è un campanello di allarme sulla fondatezza di quella «ampia e articolata analisi medica», per dirla alla Paglia, che è stata posta dal giudice alla base della sua sentenza di morte. Un altro campanello di allarme per la Chiesa Cattolica, in questa vicenda, sarebbe dovuto subito venire dall’attivismo del giudice in favore delle adozioni omosessuali, in cui al “bene dei figli” è negata una famiglia naturale con un padre e una madre. Chi ha dimestichezza con questo tema, si deve subito interrogare sull’idoneità di un attivista del genere a giudicare del miglior bene di Alfie, togliendolo alla potestà dei genitori e condannandolo a morte. L’etica ha una sua continuità. Non si può capire perfettamente il miglior interesse del bambino in un caso e fraintenderlo completamente in un altro.

Il fatto è che, di fronte alle pretese di questo giudice di sentenziare la morte di Alfie citando il Papa e la dottrina cattolica, le autorità ecclesiastiche, a cominciare dal Papa avrebbero dovuto immediatamente entrare in allerta. Sarebbe bastato poco poi per rendersi conto che il caso di Alfie non ha nulla a che vedere con l’accanimento terapeutico e spiegare ai fedeli cattolici di tutto il mondo che la Chiesa non può tollerare l’eutanasia né per azione né per omissione. Visto anche l’attuale trend dell’Inghilterra e di altri paesi di legittimare di fatto l’eutanasia e l’eugenetica col pretesto dell’accanimento terapeutico, la responsabilità del munus docendi della Chiesa avrebbe dovuto entrare subito al livello di massima allerta.

Lasciamo stare la responsabilità del munus docendi, però, e concentriamoci sul caso di Alfie. Il giudice Hayden è incompetente sulla dottrina cattolica ed è palesemente inadatto a giudicare del miglior interesse di Alfie ma è pur sempre un giudice. Se deve cambiare idea ha bisogno di argomenti oggettivi. Non gli si può dire “Sì, guarda, hai ragione ma considera, per piacere, il dolore dei genitori e la solidarietà di tante persone nel mondo”. Un giudice di coscienza che ritiene di aver deciso bene non può e non deve cedere a richieste di questo tipo. Al giudice Hayden bisognava e bisogna dire chiaramente e con fermezza che ha sbagliato a interpretare sia la dottrina cattolica sia il concetto di accanimento terapeutico. Chiarezza e fermezza su questo punto potrebbero anche cambiare l’atteggiamento di altre autorità britanniche e di quelle fette dell’opinione pubblica che non capiscono perché si debba fare tanto clamore per questo bambino, il cui miglior bene “ufficialmente” consisterebbe nel morire subito per soffocamento e disidratazione. Forse una presa di posizione veritativa forte da parte della Chiesa potrebbe perfino fare uscire la regina Elisabetta dalla totale indifferenza che ha mostrato fino ad ora per la questione.

Chiarire l’oggettiva immoralità di togliere ad Alfie l’aria, l’acqua e il cibo avviando “procedure” intese a faro morire dovrebbe essere la responsabilità primaria e solenne della Chiesa in un caso del genere, non solo rispetto al munus docendi in generale, ma anche rispetto alla possibilità concreta di salvare la vita di questo bambino innocente. La carità cristiana dovrebbe lasciare le novantanove pecore sul monte in questo caso e occuparsi di questa piccolissima pecorella indifesa. Dovrebbe tuonare a tutto il mondo che quel bimbo non si tocca e quale terribile omicidio sarebbe farlo morire per asfissia o di fame e di sete.

La Chiesa ufficiale, invece, quella che ha il potere di dialogare con i potenti del mondo, ha finora scelto l’altra strada delineata da Paglia in quell’intervista. Ha deciso di rinunciare a giudicare il caso di Alfie alla luce delle verità oggettive della morale cattolica, e ha deciso perfino di rinunciare a ricordarle al giudice Hayden e al mondo. L’unica preoccupazione del Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, forse indotta dal dibattito recente su Amoris Laetitia, è di evidenziare che ogni caso concreto richiede “discernimento”, che le questioni morali non si possono semplicemente affrontare incollandovi sopra delle norme astratte. Ora, che l’applicazione e la comprensione delle norme morali richieda prudenza è una verità vecchia e importante ma che non può giustificare il deresponsabilizzarsi. Paglia parla come se dovessimo avere un complesso di inferiorità verso la “complessità” della decisione del giudice e delle perizie dei medici inglesi, come se dovessimo lasciare fare a loro che ne sanno di più. Se fossi maligno penserei che l’obiettivo, forse in consapevole, è anche il consenso di questo mondo, il cercare di farsi belli.

Credo che solo questa impostazione di Paglia possa gettare luce sull’uscita stupefacente dei vescovi inglesi, che si sono preoccupati, non di salvare la vita di Alfie, ma di difendere la professionalità, l’onestà e l’operato dei sui carnefici. Il Vaticano si è mosso con enorme ritardo rispetto al bene di Alfie, sulla scia dell’onda emotiva del dolore dei genitori e dell’esplosione di solidarietà in tutto il mondo. Il Papa ha fatto leva su questo, che però è precisamente ciò di cui le autorità inglesi non hanno bisogno. Anzi, fare leva sui sentimenti e i desideri, cercare di commuovere pensando allo strazio dei genitori, gioca come una conferma della sentenza del giudice e delle decisioni ad essa conseguenti. È come dire al giudice che sul suo ragionamento non c’è nulla da obiettare e chiedergli di agire sulla base delle emozioni.

Rileggiamo i messaggi principali del Papa:

«Affido alla vostra preghiera le persone, come Vincent Lambert, in Francia, il piccolo Alfie Evans, in Inghilterra, e altre in diversi Paesi, che vivono, a volte da lungo tempo, in stato di grave infermità, assistite medicalmente per i bisogni primari. Sono situazioni delicate, molto dolorose e complesse. Preghiamo perché ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita» (Regina Coeli, 15 aprile).

«Commosso per le preghiere e la vasta solidarietà in favore del piccolo Alfie Evans, rinnovo il mio appello perché venga ascoltata la sofferenza dei suoi genitori e venga esaudito il loro desiderio di tentare nuove possibilità di trattamento» (Tweet del 23 aprile).

A parte la genericità di questi messaggi, la cosa che colpisce di più nell’appello del 23 aprile, quello principale da cui ci si aspettava una svolta, è che non c’è alcuna traccia della grave ingiustizia perpetrata ai danni di Alfie. Non ci sono riferimenti ai princìpi oggettivi della morale. Non c’è alcun giudizio veritativo sul fatto che sia immorale provocare la morte di quel bambino innocente. L’appello è fatto in favore della sofferenza dei genitori e del loro desiderio: un appello inutile e controproducente, lo ripeto, per un giudice che (per ipotesi) è tenuto proteggere il miglior interesse di Alfie anche contro i sentimenti dei genitori e contro le pressioni, potenzialmente ingiuste e irrazionali, della gente.

Il Papa ha chiesto di fare il possibile e l’impossibile per salvare Alfie, e tutti abbiamo assistito ai lodevoli sforzi di Mariella Enoc, Presidente del Bambin Gesù di Roma. La cosa “possibile” e auspicabile che può fare il Papa però, dopo aver comunicato empatia ed emozioni, è comunicare la verità. Può dire con chiarezza e fermezza a tutto il mondo che l’accanimento terapeutico non c’entra nulla con il caso di Alfie, che la dottrina cattolica non può essere utilizzata in alcun modo per legittimare l’operato del giudice Hayden, e che provocare la morte di Alfie è una ingiustizia infinita e un peccato gravissimo contro Dio e contro l’umanità. Finora il Papa ha chiesto di salvare Alfie in omaggio al dolore e ai desideri dei genitori. È ora di chiedere di salvare Alfie perché Alfie va salvato. Esiste la possibilità che questa chiarezza sull’oggettività morale, questo appello alla giustizia piuttosto che ai sentimenti, possa nei prossimi giorni salvare questo bambino o contribuire a salvarlo. Questo appello aiuterebbe anche la Chiesa intera, che è testimone di verità, che ha un primato nell’insegnamento della morale, e che non può permettere di cedere il proprio munus ad un giudice inglese che ha già dimostrato in molti modi la sua incompetenza e durezza di cuore.

Friday, April 20, 2018

Ancient Wisdom and Thomistic Wit: An Interview with Author Dr. Fulvio Di Blasi



Thomas International Center Program Coordinator Harrison Lee will be interviewing Dr. Fulvio Di Blasi about his most recent book, Ancient Wisdom and Thomistic Wit: Happiness and the Good Life.

The interview will be broadcasted live on the Thomas International Center’s Facebook page and YouTube channel and then saved as posts on both of those sites.

In Ancient Wisdom and Thomistic Wit, Dr. Fulvio Di Blasi explains difficult ethical concepts and arguments from Thomas Aquinas and his Ancient Greek predecessors, making them accessible even to readers with no previous background in philosophy. All the while, the author makes the topic engaging by demonstrating the relevance of ancient and medieval insights to contemporary life and popular culture. “I have often encountered, both with young students and adults, the difficulty of making them understand the existential meaning, so to speak, of the technical notions of moral philosophy…In my teaching experience, there is no concept, though sophisticated and difficult, that cannot be easily explained even to very young students or to people who have no background knowledge of the scientific field to which that concept belongs” (from the Author’s Introduction). “[Fulvio Di Blasi] may be one of the two or three best young catholic philosophers in the world today” (Ralph McInerny, 2004), From Aristotle to Thomas Aquinas Natural Law, Practical Knoledge, and the Person (2017). Fulvio Di Blasi is an Italian attorney and international scholar expert in moral philosophy and natural law theory. He is the Director of the Thomas International Online University. He has a Ph.D. in Philosophy of Law from the University of Palermo, and has taught in several universities both in Europe and in America. His books include, God and the Natural Law (2003), John Finnis (2008), Ritorno al diritto (2009), and Questioni di Legge Naturale (2009). The book is available in English and Italian.

  Coordinamento 15 Ottobre. d S   9   2 3 0 l 9 e g a   a i u 1 h g 0 l l 1 e o 2 m r 7 g : 3 0   f o    ·  Oggi è un giorno importantissimo...